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"La notte di Caprera"

 

Vi sono località che hanno ben poco da vantare nella propria storia e utilizzano ogni minimo particolare, e con ogni mezzo, per crearsi vanto. Altre, hanno da vantare ma guardano tutto con noncuranza, anche quando qualcuno tenta di sottoporre qualche argomento di riflessione.
E' accaduto così per secoli, quando imponenti piedistalli di monumenti furono abbandonati nelle campagne mentre si faceva scempio delle effigi e i blocchi di marmo o di granito degli storici edifici venivano utilizzati come pietre angolari dei palazzi dei signorotti del tempo.
Fu così che negli anni Sessanta sorse il Gruppo Archeologico per iniziativa di pochi volenterosi, di cui mi onoro di essere stato parte eminente, che stimolò le autorità locali a prendere opportune inziative. In quel periodo era data ai Comuni l'opportunità di istituire cantieri di lavoro per lenire la disoccupazione, erano poco remunerativi per i lavoratori, ma furono di gran sollievo per loro e per la comunità. Infatti quei cantieri furono dedicati ai primi scavi nelle località che apposite fotografie avevano indicato come più interessanti.
I volontario del G.A.I. si prodigavano alla ricerca ed alla raccolta dei molti importanti reperti scavati nelle campagne e li sistemarono in un locale concesso dal Comune che intanto si dedicò al progetto di un museo. A tal uopo acquisì un suolo che non fu ritenuto idoneo dalla Sovrintendenza ai Monumenti e sapete perché? Udite! Udite!, perché di interesse archeologico!
Ancora oggi quel suolo, invaso dalle erbacce, resta inutilizzato e non so spiegarmi il perché.
Ci volle il tenace testardo impegno di un benemerito sindaco per liberare la Cavallerizza dall'unico e purtroppo inadeguato cinema per dare dignitosa sede all'odierno Museo archeologico.
In tempi più remoti ci fu qualcuno che tentò di dare fama alla città evidenziando l'importanza del famoso "incontro"; certo un fatto di grande importanza dal lato storico, ma, alla luce dei fatti,, non saprei dire quanto utile al nostro progresso.
A tal uopo mi sovviene il ricordo del mio maestro della scuola elementare che ci teneva a ravvivare la memoria di quell'evento e ci faceva imparare un lungo brano del componimento intitolato "La notte di Caprera". Il brano, in verità è molto bello e meritava essere portato a conoscenza delle nostre generazioni. Avrei voluto citarlo per intero, ma, non ricordando il nome dell'autore, non ho potuto fare le opportune ricerche per averne il testo integrale.
A distanza di circa settantacinque anni mi accingo perciò a citare quanto ancora ricordo scusandomi se non sarò perfetto nella rima e completo nel testo.
Il poeta, dopo aver descritto altre vicende precedenti, per quanto ci riguarda si esprime così:

Triste è la bocca nella sua barba d'oro
Ché gli sovvien del molto amaro sorso;
Era laggiù, presso Teano
Incontro ai foschi monti del Sannio,
Il Donatore!
Seduto all'ombra era su vecchia botte
Non più capace di contener la forza
del vin novello.
Era l'autunno intorno!
Ammutolito sul Volturno il cannone,
Piegata e rotta la gente del Borbone sul Garigliano,
Scomparso con la sua scorta splendida
Il Re sul suo cavallo storno
Andato a mensa.
Era l'autunno intorno!
Cadean le foglie al tremolio dei pioppi
I campi roggi fumigavano
Sotto l'aratro antico tratto
Dai bianchi buoi campani
Cui rauco urgea il bifolco
Fasciate le anche del vello del montone
Coperto il bronzeo capo dal frigio corno.
Antiche e grandi eran le cose intorno!
Antico e grande era il cuore dell'uomo
Seduto in pace sulla fenduta botte.
Ognuno taceva, ogni animo era prono dinanzi a lui col silenzio che adora:
È la preghiera.
E il forte elce nodoso che nereggiava quivi
Fu santo come un altro orto ove pregò
Tre volte un latro uomo dalle fulve chiome!

Continuando il poeta ci racconta che, sul mezzogiorno, qualcuno offrì all'eroe del pane raffermo e cacio stantio, di grave odore, evidentemente le nostre "marzelline", che lo stesso si apprestò ad affettare con "il suo coltello a scrocco, il suo coltello da marinaio raccomandato ancora alla sua vecchia corda" E ancora che, avendo chiesta da bere, fu portata "al donator di mondi acqua di pozzo".
Siamo grati al poeta per aver considerate antiche e grandi le cose intorno a noi, ma diciamo che se fosse stato meglio informato avrebbe anche incluso tra queste il secolare acquedotto che la natura e la saggezza dei nostri avi ci avevano tramandato e avrebbe considerato anche la nostra tradizionale ospitalità che avrebbe spinto i nostri concittadini, seppure ignari ed attoniti per quanto succedeva loro intorno, ad offrire all'eroe un buon bicchiere di rosso. Almeno sull'acqua non avrebbero lesinato, tanto più che a qualche passo dal luogo descrtto, sorgevano fontane da cui fluiva a getto continuo la nostra chiara e fresca acqua, tanto da farci chiamare dai viciniori comuni il "paese dell'acqua".

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno III 2006 - n. 6 Giugno)