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Bambini di una volta (II parte)

 

L' oggetto dei desideri dei più grandicelli era sempre uno: la bicicletta.
Qualcuno aveva già provato l'ebbrezza della velocità pedalando sul suo triciclo; qualche altro l'aveva tentata facendosi costruire il “carruocciolo” con qualche asse di legno e quattro cuscinetti a sfera in disuso, ma questo funzionava solo in discesa, poi bisognava trainarlo su per ripetere il percorso. Ma niente a vedere con la bicicletta che era invidiata a qualche raro possessore che non si commuoveva alle preghiere di chi implorava per compiere un giretto magari solo in piazza Duomo o della Vittoria. A volte si riusciva a racimolare una mezza lira per noleggiare mezz'ora di bicicletta da un noleggiatore che ti mollava un ferro vecchio e poi, quasi sempre, pretendeva qualcosa in più perché, diceva lui, avevi sforato di cinque minuti o avevi danneggiato il filo del freno o qualche altra cosa, e bisognava fare il diavolo a quattro per ottenere la restituzione del pegno dato in garanzia.
Ma, direbbe Pupo, questa è un'altra storia.
Intanto bisognava crescere e per questo quasi tutti i ragazzi, tramite accordo tra i genitori e qualche indulgente artigiano, venivano mandato “al maestro”, tenendo presente anche le loro preferenze che venivano incoraggiate da una paghetta che l'artigiano fingeva di elargire secondo i meriti, ma che in realtà a questo era passata dal padre del discepolo. Ma il fatto costituiva comunque una scuola di vita che toglieva i ragazzi dalla strada e li abituava alla disciplina ed all'obbedienza.
Qualcuno volle poi individuarvi lo sfruttamento del lavoro minorile e questo andava anche bene per quanti erano avviati a mestieri pesanti ed a scopo di guadagno, non certo per quelli che erano affidati ad un barbiere, un sarto, un falegname o un calzolaio, dove al massimo erano incaricati di dare una passata al pavimento con la scopa o prendere una catinella di acqua alla vicina fontana pubblica.
Ho conosciuto artigiani più preparati che aiutavano il ragazzo nello svolgimento dei compiti scolastici. Poi, quando ad essi fu imposto l'obbligo degli oneri di assistenza e previdenza, finì la bella favola dell'apprendistato ed i ragazzi che non avevano la fortuna di essere avviati agli studi, rimanevo nelle strade in attesa di compiere l'età giusta per avviarsi ad un lavoro remunerativo per il quale non avevano alcuna preparazione.
Io fui fortunato perché venni accolto in una farmacia e non certo, come già detto, per imparare a fare il farmacista. Quando vi entrai la prima volta mi sembrò di essere in un mondo incantato: le pareti laterali erano coperte interamente da vetrine in cui spiccavano artistici vasi di ceramica adornati e colorati a mano. Di fronte un banco lunghissimo e più alto di me. E meno male che il titolare non mi superava di molto in altezza ed aveva posto, dietro di esso, una alta pedana: così ben presto imparai ad essere d'aiuto nel disbrigo dei compiti che allora erano molti per il farmacista.
Oggi egli si dedica solo alla consegna di scatole di compresse e pillole, di fiale, flaconi, bustine ed astucci con i rimedi già pronti per ogni male. Così capii perché tanti vasi. Ognuno conteneva eccipienti naturali che venivano opportunamente manipolati per la preparazione dello specifico del caso. Erano fiori, erbe, polverine, oli vari, vaselina. Quelli sul banco contenevano prodotti di impiego più immediato. Come purganti vi erano cose correnti come l'olio di ricino o il solfato di magnesio (o sale inglese) e, per i più delicati, il cremore di tartaro temperato con citrato di magnesio. Come ricostituente il disgustoso olio di fegato di merluzzo a cui venivano condannati quasi tutti i bambini.
Ma gli altri medicamenti bisognava prepararli di volta in volta secondo ricetta medica.
Forse per questo i farmacisti erano anche chiamati speziali, perché eredi dei venditori delle preziose spezie provenienti dall'oriente. Per i decotti era sempre pronto il bricco in cui venivano messe a bollire le erbe necessarie sull'immancabile fornello a spirito. Naturalmente il richiedente doveva portare un recipiente dove raccoglierlo filtrato. Le pomate venivano preparate impastando con una spatolina le varie polveri con l'olio di vaselina. Poi c'erano le pillole da ingoiare, ben lontane dalle odierne piccole compresse: il farmacista pesava la dose complessiva degli ingredienti in polvere, poi la divideva in tante cartelline quante prescritte dal medico e le chiudeva opportunamente. Esse venivano consegnate unitamente ad un relativo numero di ostie che, al momento dell'assunzione, venivano leggermente bagnate, stese sul palmo della mano pronte ad accogliere la dose di polverina e formare poi un malloppo da mettere in bocca ed ingoiare con un sorso d'acqua.
Già questo richiedeva coraggio, ma figuratevi cosa succedeva quando l'ostia si rompeva e la polverina si spargeva in bocca.
Tutto sommato queste cose mi divertivano e spesso aiutavo a fare le cartelline o ad impastare gli unguenti. Sovente, come ogni bambino, avevo voglia di fare una sgambettata, e l'occasione mi veniva data da alcuni amici del farmacista che durante la giornata venivano a farsi una chiacchierata.
A volte avevano bisogno di comunicare con qualcuno che risiedeva abbastanza lontano, ed in tempi in cui non esistevano né telefoni né cellulari, le notizie bisognava recarle di persona ed il latore prescelto ero io, che felice partivo di corsa a fare l'ambasciata. E di corsa, trafelato, tornavo con la risposta e cominciavo con “…ha ritto accussì…”. Ma dopo alcune volte, prima ancora che riprendessi fiato, il giovane dottor Fabrizio, che era un assiduo frequentatore della conventicola, mi anticipò esclamando: “ ha ritto accussì…”. E da allora divenne un rito ripetuto ad ogni mio ritorno.
Gli anni passano anche per i bambini ed anche io dovetti lasciare il gradito impegno per avviarmi sulla strada assegnatami dalla Provvidenza.

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno II 2005 - n. 7 Novembre)