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La Cappelleria di Don Pietro

 

Si, c'era una volta... il cappello; ma non quale siamo adusi vederlo od usarlo.
Il cappello una volta, era una cosa seria, un simbolo, l’emblema della personalità e del ceto di appartenenza. Tutti dovevano avere un cappello e la posizione sociale veniva a prima vista individuata e giudicata dal cappello.
Chi godeva di posizione economica o sociale eminente non poteva fare a meno di un “Borsalino” chi non poteva permettersi un tale lusso ma voleva figurare si accontentava di un “Panizza”.
Gli altri si contentavano di prodotti più scadenti e facilmente deformabili ma che, all’occorrenza, la smacchiatura e la stiratura del cappellaio poteva rendere ancora servibili.
I più poveri non potevano permettersi che la coppola o il basco.
Comunque nessuno poteva essere privo di cappello anche se ciò procurava dei fastidi giacché, mentre oggi si arriva alla scorrettezza di tenere in testa strani copricapo anche in esibizioni di pubblici spettacoli, allora, sia per consuetudine sia per galanteria, si era tenuti a scappellarsi ogniqualvolta si incontrava una persona di riguardo o una signora.
Ma esso non poteva mancare nelle occasioni solenni anche se queste si svolgevano in genere in luoghi chiusi. E proprio queste occasioni erano motivo di gravi preoccupazioni per il meno abbiente che, vistosi invitare, per esempio, ad un matrimonio, faceva il suo piccolo inventario: il vestito e la camicia del mio matrimonio con una buona stirata possono ancora figurare; le scarpe della domenica hanno bisogno solo di una buona lucidatura. E il cappello? Non potrò certo presentarmi con questo straccio impresentabile! Dove piglio i soldi da sprecare per una breve apparizione?
E via alla ricerca delle scuse da inventare per esimersi dal partecipare alla cerimonia.
Ma non ci sono scuse. Il cappello era indispensabile in questa vita ed anche nell’altra perché anche là bisognava presentarsi col cappello. Infatti, all’atto dell’ultimo addio il dipartito, vestito di tutto punto con i suoi abiti migliori e le scarpe di panno e tela cerata che si vendevano apposta per l’occasione, doveva avere ai piedi del letto il cappello. Pazienza poi se, per I’impossibilità di averne uno suo, un parente o un amico metteva a disposizione quello proprio. Ma il defunto non poteva partire per l’altro mondo senza prendere il cappello.
Tutto ciò dava poi origine al pregiudizio ancora radicato in alcuni ambienti che posare un cappello, sia pure per distrazione, su un letto era di cattivo augurio perché poteva essere la premonizione della dipartita dell’abituale occupante di quel letto.
Questo andava a tutto vantaggio di Don Pietro, l’unico venditore di cappelli nella piazza e che soleva presentare la sua merce in modo a dir poco ambiguo che a volte suscitava incresciosi equivoci.
Egli, infatti, quando il cliente si mostrava dubbioso sulla qualità o sul prezzo, facendo girare il cappello nella mano sinistra ed esaltandone la qualità e la convenienza, soleva lisciarne il pelo col gomito destro della giacca tenuto teso con la punta delle dita della mano chiusa a pugno che andava avanti e indietro, mentre ripeteva “questo portatelo a vostra moglie, fatelo vedere anche a vostra sorella, esse potranno darvi il loro giudizio...” !
Ma quell’andirivieni del pugno chiuso accompagnato dalle citate frasi fu da più d’uno frainteso con conseguenze sovente poco civili. Non è che l’esigenza del cappello fosse solo al maschile.
La donna non era considerata una vera signora se non aveva il suo o i suoi cappellini. Ma chi li indossava senza averne i requisiti veniva ferocemente schernita.
In principio essi erano a forma di cuffia ornata da spilloni con capocchia sgargiante di vetro o finta perla o da fregi ricamati; ma sempre forniti di veletta molto rada e che per le vedove era di rigore nera e che lasciava comunque intravedere il colore vivo del belletto delle labbra e delle guance che allora si usava in modo molto marcato.
Poi le modiste si affannarono a creare nuovi modelli, soprattutto in paglia variamente colorata, sormontanti da piume, da mazzetti di fiori, da grappoli di frutta o, addirittura, da uccelli esotici e la vanità femminile fece onore alla moda.
Le donne del popolo non avevano i mezzi né la consuetudine per abbigliarsi di simili novità, ma anche esse (parliamo di donne sposate) solevano coprirsi il capo con appositi fazzoletti che sistemavano secondo gli usi locali: piegandoli a triangolo e legandone due vertici sotto il mento, mentre il terzo scendeva sulle spalle, o portando tutti i vertici dietro alla nuca , o ripiegando gli stessi sul capo dove venivano fissati con spilloni o fermagli vari.
In talune zone, come in Ciociaria le cosiddette “pacchiane” portavano il capo coperto da costosi rettangoli di fini merletti o tini ricamati, sempre fermati da sgargianti spilloni.
Nessuna donna sposata, in effetti, osava presentarsi in pubblico a capo scoperto.
E le fanciulle?
Queste attendevano con ansia il raggiungimento della maggiore età, che allora era di 21 anni, perché anch’esse anelavano al cappellino non concesso alle adolescenti. Perché solo allora era loro concesso di indossarne uno di quelli creati apposta per loro, certo più semplici di quelli per signore, ma che comunque dava loro una parvenza di signorilità.
Si racconta che una di queste andanti adolescenti di nome Enrichetta (in famiglia chiamata “Richetta”) e figlia di un agiato signore che si fregiava dell’appellativo di “don”, appena giunta all’età fatidica, facesse pressante richiesta al padre perché le comprasse il sospirato cappello e che il padre con orgoglio rispondesse: “Comme, ‘a figlia e don Antonio A. senza u cappello? Ce vo’ e ce s’adda fà nu’ cappelletto a donna Richetta”.
E Richetta ebbe il suo cappello suscitando la gelosia di quante non potevano ancora appagare questo desiderio!

Paride Squillace
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 6 Giugno)