L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
 
Pagine d’autore - da «Luoghi e stagioni»
 
di Paolo Cristiano
Argo Editore, 1998 - Lecce
 
 

Teano. I suoi colli ossuti, ricchi d'olivi. I castagneti verso Roccamonfina. I radi campi di pallido grano, di sonanti lupini, di fave argentate. Le vigne digradanti verso il mare non lontano, il Tirreno di Mondragone, Scauri, Formia. I suoi cieli alti, di vetro, limpidi o cinerini, intensamente azzurri, accesi di un rosa ciclamino sulle cime violette della corona di colli nelle effusioni del vespero. Le strade bianche di polvere tra siepi di more e biancospini. I pini dalle scaglie sanguigne e le chiome irte, le querce immense e solenni, i platani d'oro, gli arabeschi morbidi dei fichi, i castagni folti di scoppi, i pioppi di tremulo argento, gli aranci ricamati di candidi merletti odorosi o sparsi di lampade accese. Le rondini in voli radenti sulla ruggine delle tegole. I capi nudi ai brividi della sera.
I vicoli sporchi, acri d'odori e tiepidi d'umori. Le chiese ad ogni angolo o spiazzo, tra case e tuguri, intrise di spifferi e incenso. Tutto gonfio di miseria e d'ira repressa, immerso in quotidiani effimeri incanti, nella mestizia dei lutti e nell'esplosione d'inesplicabili misfatti. Teano. Se l'ho amata! con il suo campanile a pera, colorato di mattonelle gialle e azzurrine. L'orologio grande che suonava, per tutti, le ore, le mezze e i quarti. I suoi abitanti più o meno matti, estrosi, disponibili, pezzenti e gran signori. Quanto vorrei parlarne. Quanto vorrei saperne parlare. Ma la voce si rompe nel dire pur se non ne ho tratto che questa disposizione a sognare e soffrire.
Attraversata dal corso, in alto, nel cuore dell'abitato, la piazza: l'agorà, non solo nella sua dimensione spaziale, con gli scalini tutt'intorno ad anfiteatro e le colonne basse, ma nella viva dimensione sociale e corale.
In piazza c'eravamo tutti, sempre. All'alba, con i giornali vi si prendevano le carrozzelle per la stazione ferroviaria giù nella piana. Partivano gli studenti, gli avvocati, i commercianti. Vi passavano le donne per la messa e la spesa, i preti, i braccianti, i muratori, il sarto, il falegname, il pretore, il sindaco o, a suo tempo, il podestà, gli insegnanti, i ragazzi. Il caffè lo faceva Bongiorno, per tutti, là sugli scalini a sinistra della grande terrazza del circolo, quando in cima alla notte non ancora era apparso il mattino. E con il caffè le prime parole dolci o pungenti. Le notizie dei lutti, delle nascite, degli amori, d'infortuni, di fortune. Ognuno, con il suo dafare o il suo ozio, incline a informarsi, informare, scambiare parole, sentori. paure, speranze, pene. Anche l'ultimo, con il suo nulla, era compreso nel sommesso corale che dalla sordina dell'alba esplodeva con il sole sui tetti e ai vetri.
La giornata entrava nel suo vivo al suono della campanella del "Loggione", la scuola elementare al centro del paese, in un angolo della piazza. Mia madre e mia zia, entrambe insegnanti, smettevano il cicaleccio sugli abiti, le stoffe, la sarta, le colleghe, il diretto­re, le circolari, e correvano a scuola. Mia sorella in collegio a Capua. Mio fratello a Caserta per i suoi studi. Spesso restavo solo in casa con la domestica fedele negli anni e la vecchia nonna. Spiavo tra letti e fornelli, il riassetto e la preparazione del pranzo, apprendendo cose mai più dimenticate, la scelta delle verdure e degli ortaggi, i piatti caratteristici, la durata delle diverse cotture, i pettegolezzi su tutti, i fatti di sangue e di sesso mormorati sottovoce, di soppiatto. Tutto ritorna nelle ore d'esilio, nel silenzio di dentro.
In casa la disciplina era severissima: mio padre, il preside, incuteva terrore con il suo tono perentorio e la sua fermezza d'uomo rigoroso e inflessibile, amministratore inesorabile, imparziale e scrupoloso di opere pie quali l'ospedale, l'asilo, il mendicicomio. Fuori, tutto invece era accomodante, conciliante, cordiale.
Spesso raggiungevo di corsa la vicina masseria dove abitava Elena, una delle più brave compagne di scuola, alla quale ricorrevo, sicuro anche dell'ottima esecuzione, per la copia dei compiti più difficili che non avevo avuto volontà o capacità di svolgere.
Mentre lei era intenta a copiarli, restavo a contemplare, dall'uscio, le gallinelle bionde del Cavone che, inseguite dai vispi galletti e dal sole acceso per il prossimo tramonto, correvano arruffate lungo il sentiero di polvere e fango che attraversava il podere tra gli alberi, le siepi e i campi coltivati, sollevando nastri dorati di nuvolette polverose che legavano, in una loro danza ondivaga, i declivi smeraldini o rigati da bruni solchi paralleli, ai lontani orizzonti incandescenti.
Rientrando, per i vicoli e le piazzette, mi sciamavano intorno ragazzine appena in boccio con leggere tunichette color indaco che, tra l'argento brunito o giallastro dei tufi e il grigio azzurrino del selciato scon­nesso, intrecciavano i loro mesti voli di libellule.
Dal corso alle stradine dei campi e degli orti vicini, era tutto un tessuto policromo e tenero che, con i prati, i colli, gli alberi, le prime stelle e la nuvolaglia ovattata, mi avvolgeva protettivo, tiepido e umidiccio per diventare infine la densa coltre tenebrosa del notturno silenzio nel quale m'abbandonavo fiducioso e stremato.
I riti religiosi, seguiti da tutta la popolazione, e par­ticolarmente da quella delle frazioni e delle case sparse che con slancio unanime affollava le strade, le piazze, le chiese, preda d'una fede che sconfinava in fanatismo superstizioso, erano intimamente collegati ai ritmi stagionali. D'inverno, il Natale, spesso con la neve, ci vedeva alle prese con l'allestimento dei presepi nelle chiese e nelle case. Si partecipava, senza defezioni, alla messa di mezzanotte nel duomo o in altre chiese che celebravano la natività. Ci si aspettava poi di godere il grande cenone, i dolci tradizionali, per lo più fatti in casa, il vino novello, l'olio fresco di frantoio, il ciocco al camino per le serate più lunghe dell'anno.
A primavera, la Pasqua, con la sua settimana costellata di riti e funzioni tutte seguite attentamente nella loro ripetizione senza varianti: la via crucis, la lunghissima processione del venerdì santo, che partiva dal duomo nel primo meriggio e durava fino a sera attraversando tutte le strade urbane e suburbane accompagnata dalle note strazianti della marcia funebre di Beethoven ripetuta ossessivamente durante tutto il percorso. Processione che si concludeva quasi sempre tra fulmini e tuoni, neri nuvoloni e scrosci di piova­schi.

(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 3 Marzo)