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Antiche tradizioni - Il rito della mattanza del maiale
 

Dietro ogni cubetto di pancetta che assaporiamo in una porzione di amatriciana, dietro ogni frigolo di salsiccia piccante che gustiamo, ogni fetta di prosciutto, vi è una lunga trafila in capo alla quale ci deve essere la mattanza del maiale. Fin da tempi antichissimi: probabilmente fin da quando l'uomo addomesticò qualche specie simile al cinghiale, il maiale ha sempre rappresentato il simbolo di abbondanza domestica.
Presso le spose latine la sugna rappresentava la fertilità per ogni attività agreste, essa per augurio veniva spalmata nei cardini e su gli standeri delle porte. Diversi autori ci hanno lasciato testimonianza dell'importanza attribuita a questo animale nelle società di ogni tempo: Virgilio celebra il maiale con l'episodio della bianca scrofa che indica ad Enea il luogo dove sbarcare nel suo lungo peregrinare.
Col Medioevo cristiano, le cose per il porco si misero male: i simboli della religione pagana vennero demonizzati ed il porco diventò la metafora della lussuria. Ciononostante la sua ricchezza alimentare fu molto ambita per tutto il medioevo ove dilagava una totale miseria e non tutti potevano possedere un maiale da poter crescere. La massima “…che del maiale non si butta niente” è tuttora valida presso i contadini ove esso rappresenta ancora la prima fonte di sostentamento per il lungo inverno.
Il nostro territorio, collinare e ricco di castagneti e querce, e quindi di castagne e ghiande, è stato per secoli l'ambiente ideale per l'allevamento brado e semi brado dei suini, in particolar modo per la pregiata razza del “pelatiello teanese“ “o' puorco cu' è sciucquaglie” (bargigli), oggi conosciuta come “maiale nero casertano”.
E' questa una specie autoctona dalle caratteristiche uniche: la cute di colore variabile dal grigio ardesia al nero violaceo, quasi del tutto privo di setole (da cui “pelatiello”) con carne tenera, compatta e profumata, ricca di gusto e sapore, oggi fortunatamente riscoperta e valorizzata dopo decenni di oblio in cui si era seriamente corso il rischio dell'estinzione della razza.
Il periodo in cui si ammazza il maiale presso i contadini, va da dicembre a febbraio: grazie al clima di questo periodo la carne può essere lavorata senza pericolo che si perda. Oggi esistono delle prescrizioni legali sulle modalità di ammazzare il maiale.
Ma la mattanza del maiale in molti casi, presso i contadini, è rimasta quella tradizionale.
La mattanza, divenuta un autentico rito, aveva inizio con la levata verso le quattro del mattino del Pater Familias che poneva a bollire l'acqua in grossi pentoloni che dovevano servire per la spellatura della bestia.
Al primo albeggiare con un gruoccu (uncino) molto acuminato si infilzava la grassa cullareccia e con grande fatica si trascinava l'animale verso un letto di tavolacci, così fra strilli ed imprecazioni vi si capovolgeva e lo si legava prima alla meglio per non farlo scappare, e poi con grande meticolosità.
La padrona di casa con mantesino (grembiule) e maccaturu (fazzoletto) in testa rigorosamente bianchi, lavava il collo al maiale con acqua ben calda nel punto in cui bisognava scannarlo, aveva accanto una capace pentola per raccogliere il sangue che di lì a poco sarebbe uscito a pisciariegliu (a fiotti) dal collo dell'animale. Non sfuggiva, in questa occasione, una certa commozione della massaia: lo aveva cuernato (allevato) per un anno intero e lui non grugniva in modo ostile quando lei entrava nella rolla (stalla) per riempire la pelva (mangiatoia di tufo grigio) di ghiande, castagne, granoturco e pappone per l'ingrasso (specie di ciambotto fatto di avanzi di brodo e farina), nella sua mente il sacrificio acquistava un necessario significato sacrale: l'ottima carne, durante l'anno ed in diverse forme, doveva essere centellinata per il sostentamento della famiglia. Le stoccate non erano decise perché la morte non doveva sopraggiungere troppo in fretta, almeno finché non fosse colato abbastanza sangue per fare i sanguinacci.
La fase successiva riguardava la spellatura e la spelatura: la cosa si faceva versando acqua bollente sul maiale mentre gli addetti a questa funzione, con i coltelli, si davano da fare a grattare in una nuvola di vapore, le parti più rognose da spellare e se ne occupavano i più esperti ovvero i più anziani: sono la testa ed i piedi, una volta anche la coda (a peggiu a scurtecà) ma adesso nelle aziende di allevamento gliela tagliano, per quanto corta, altrimenti pare che se la mangino fra di loro stando in luoghi molto stretti.
Così le povere bestie non si possono neanche più scioccare le mosche ed i tafani intorno all'ano.
Quando il maiale era ben pulito, e di ciò ne avevano contezza le massaie che dovevano poi cucinare le cotiche, si appendeva ad un cussale per squartarlo: lo squartamento era un'operazione delicata, bisognava stare accorti a non bucare le aurelle (le intestina) che la massaia, anche se maleodoranti, raccoglieva devotamente in una canestra che lasciava per un po' di tempo a raffreddare.
Le pacche (le metà) di maiale venivano depositate in un luogo fresco possibilmente in un ciullaro, la sera a carne fredda si sarebbe sfasciato il maiale per poterlo poi lavorare l'indomani in salsiccia, prosciutti, pancetta, salami, capicollo, lardo e ogni altro ben di Dio.
Terminato il rito del mattino si faceva un'abbondante colazione con cibi piccanti e generosi fiaschi di vino: dopo gli uomini, un po' brilli, toglievano i loteni (tutti gli attrezzi serviti per la mattanza) da mezzo, mentre le donne lavavano le intestina che avrebbero contenuto i sanguinacci, le salcicce ed i cotechini.

(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 3 Marzo)