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Omelia pronunziata da S. E. Mons. Arturo Aiello nel XX anniversario della morte di Mons. Matteo G. Sperandeo
 
La sera del primo dicembre, nel corso della solenne liturgia celebrata nella cattedrale in memoria di Mons. Sperandeo, il nostro Vescovo ha pronunziato l'omelia che pubblichiamo nel testo raccolto dai redattori del sito Internet della parrocchia di Piano di Sorrento, non rivisto dall'Autore. In questa mirabile sintesi delle doti umane e sacerdotali del sempre compianto Vescovo, Mons. Aiello manifesta grande stima e riverenza verso il grande Predecessore.
 

Carissimi fratelli e sorelle,
innanzi tutto raccogliamo questo messaggio, che è il cuore della liturgia della Parola nella I Domenica di Avvento, ad essere vigilanti, vigilanti perché? Perché in attesa. Questa dimensione dell'attesa ha contraddistinto in modo fortissimo le prime comunità cristiane, che vivevano nella percezione anche sensibile, visibile della imminenza della venuta del Signore, s'impegnavano certo nel lavoro, nelle realtà temporali ma con quella ironia che ha solo chi sa che queste realtà sono passeggere, non sono quelle definitive, né il lavoro, né la vita politica, né i problemi familiari, né quelli affettivi costituiranno il nostro avvenire, consolatevi, il nostro futuro sarà un futuro di pace, sarà un futuro all'insegna della pienezza di vita, invece qui siamo oppressi da tante restrizioni, da tante prove, da tante limitazioni, e quindi la prima Chiesa ha sentito forte che il messaggio del vangelo conteneva questa dimensione d'attesa, d'avvento.
"Venga il tuo regno", "vieni, Signore Gesù" erano le parole che ricorrevano più spesso nella preghiera, nella liturgia, e anche nel cuore dei credenti. Se ci guardiamo in giro non credo che questa attesa del regno di Dio, della venuta del Signore sia oggi particolarmente avvertita e tanto meno evidente sul volto anche dei credenti, sul volto delle comunità. Iniziare il Tempo di Avvento, che coincide anche con la Novena in preparazione alla solennità dell'Immacolata, significa riprendere questa dimensione essenziale dell'attesa; questa dimensione, se vissuta, ci aiuta a impegnarci senza esaurirci nelle realtà temporali, perché il pericolo che corriamo tutti, nella scuola, nel lavoro, nella vita affettiva, nell'organizzazione del tempo libero, il pericolo che viviamo è di esaurirci pensando che questa è l'unica realtà, questa è una realtà, ma è una realtà transeunte, cioè di passaggio e le cose di passaggio anche se non sono meravigliose, entusiasmanti secondo la nostra attesa non ci dorrà più di tanto, non ci creerà problema più di tanto, e invece la percezione che la vita sia tutta qui ci pone nella certezza dell'infelicità, perché diciamo: La vita è questa, è solo questa, e quindi non ho i soldi, non ho il tempo, non ho... e ci sentiamo tremendamente penalizzati. Questa terra, e tutto quello che vedi, è di passaggio, e tu stesso sei di passaggio, "avvento" significa venuta, entrare nel Tempo di Avvento non significa solo mettersi in attesa del Natale liturgico ma riprendere la dimensione che deve accompagnare tutti i tempi della vita dell'uomo, che è la dimensione dell'attesa del Signore, che verrà a sanare tutto e a riporci nella pienezza di vita che a fondo a fondo tutti desideriamo e che inutilmente cerchiamo in questa o quella esperienza.
Così hanno vissuto i santi, così hanno vissuto i pastori di questa Chiesa in passato, così ha vissuto il Vescovo Matteo Guido, di cui questa sera vogliamo fare particolare memoria.
È il Vescovo nel mio sentire, ovviamente parliamo degli ultimi, cioè quelli del secolo scorso, che ha influito in una maniera più profonda e determinante nella vita della nostra Diocesi e anche della nostra terra. Credo che nessuno, vuoi per ampiezza, e non basta solo questo, di ministero nel tempo, è stato Vescovo trent'anni, ma soprattutto per la sensibilità del suo cuore, per essere entrato nel vissuto connettivo della storia di questi luoghi, nessuno, come lui, ha plasmato la storia della Chiesa di Teano-Calvi in una maniera così incisiva.
E anche Mons. Sperandeo era in attesa, era in tensione verso l'incontro pieno e definitivo con il Signore, che ha realizzato pochi anni dopo aver lasciato il governo di questa Chiesa, eppure, nel tempo, nello spazio è riuscito a dare forma ai cuori, lo vedo nella classe degli attuali cinquantenni, sessantenni, quelli che mi dicono: "Noi siamo cresciuti con Mons. Sperandeo in episcopio, noi conoscevamo dove erano nascosti i liquori, noi..." per dire familiarità.
È un Vescovo che si è fatto popolo, che non ha guardato dall'alto le realtà, le vicende, purtroppo sempre dolorose delle nostre famiglie, delle nostre parrocchie, della nostra Chiesa, ma vi si è immerso avendo questa tensione per l'eternità e anche un affetto e una presenza nel tempo molto forti, al punto da diventare stella per il cammino di tanti, soprattutto in quel tempo prodigioso e anche delicato della vita, che è la giovinezza, dove si pongono le strutture fondamentali della vita intorno alle quali poi si costruisce la vita professionale, quella affettiva e gli anni a venire.
Vorrei sottolineare, per quello che riesco a percepire del Vescovo Matteo, tre aspetti, tre parole che in qualche maniera ce l'ho, vi consegno questa sera, sia pure attraverso le mie povere parole, e il primo termine, la prima parola è PATERNITÀ.
Tutti i Vescovi sono padri, tutti i sacerdoti sono padri in grazia dell'Ordine, ma alcuni hanno un dono naturale e soprannaturale di vivere la pastoralità, la carità pastorale in una maniera così sensibile e così attenta da attirare l'attenzione dei figli al punto da incidere nella loro vita. Quando l'immediato successore di Mons. Sperandeo, Mons. Cece, a un anno dalla sua morte fece fare il busto, che è in fondo alla cattedrale, con una lapide, fece scrivere: "Vescovo per trent'anni, padre per sempre", a indicare che i Vescovi passano ma il padre resta.
Un adagio latino dice: "Semel pater, semper pater", cioè il padre di una volta non può essere padre di una stagione, di un momento, è il padre sempre, lo ritrovi anche quando geograficamente o nel tempo è lontano, e Mons. Sperandeo è stato padre, padre nel senso pieno, nel senso di chi accoglie, di chi dirige, di chi dà una impostazione alla vita dei figli ma anche padre nel senso più dolce.
Per questa celebrazione ho voluto indossare la croce pettorale di Mons. Sperandeo, ma mentre la mettevo su in episcopio mi sono detto: è facile mettermi questa croce. Signore vorrei che sotto questa croce ci fosse lo stesso cuore. Questa è la preghiera che ho fatto privatamente in episcopio e che adesso dico davanti a tutti senza difficoltà, perché questa croce poggiava su un cuore, ed era il cuore del padre. Il padre è fermo ma il padre è anche tenero, il padre indica la strada ma il padre apre anche la strada dando l'esempio, il padre raccoglie i figli nel momento della difficoltà e li consola, il padre incita alla battaglia, all'impegno, alle nuove frontiere che i figli debbono aprire. Mons. Sperandeo è stato padre, per cui paternità è il primo termine con cui mi sembra di poter accedere al mistero del suo episcopato qui a Teano-Calvi guardando i frutti.
E vengo alla seconda parola che è FECONDITÀ, perché una madre non è madre solo perché è donna, ma è madre all'atto in cui genera, e così un uomo non è padre se non all'atto in cui genera, per cui una grande paternità è anche legata ad una grande fecondità, e noi a distanza di anni, oggi vent'anni dalla partenza da questo mondo per il cielo di Mons. Sperandeo, possiamo dire che gli anni del suo episcopato, non solo, ma anche gli anni successivi sono stati all'insegna della fecondità, perché un padre genera i figli, fa i figli noi diciamo in napoletano con un verbo plastico, nel senso che li impasta. E un padre grande non ha uno, due, quattro, dieci figli ma tanti figli. E qui la fecondità è nelle persone formate, la fecondità è nelle opere, innanzi tutto questa cattedrale, che sta celebrando il suo cinquantesimo anniversario di consacrazione, è in qualche maniera frutto di quella paternità e di quella fecondità, perché la fecondità è anche nelle pietre, la fecondità è anche nelle opere, la fecondità è anche nelle istituzioni, la fecondità è anche, per Mons. Sperandeo, nel fervore pastorale, nella comunione con i sacerdoti. È difficile trovare un presbitero che abbia un ricordo negativo del Vescovo Matteo. Voi starete pensando: "Quando si passa la frontiera della morte tutte le persone in qualche maniera diventano canonizzabili", ma in una maniera profonda questa assenza di tensioni, di ricordi negativi, di rimprovero aspro è invece il canto di una figliolanza che si è sentita riconosciuta anche nella sua dignità e accompagnata benevolmente. La benevolenza credo fosse una delle caratteristiche di Mons. Sperandeo.
Il mio ricordo è da seminarista, e anche i seminaristi sono molto attenti, sapete, nei confronti dei Vescovi, perché poi parlano tra loro. Ricordo quelle volte in cui venivo qui, poche volte, per le Ordinazioni, per i ministeri. Vi venivo sempre con un senso di dolcezza nel cuore, perché questo Vescovo anziano, rugoso, mi dava l'idea del nonno. Ecco, vi devo confessare questa percezione, di me giovanissimo, sentirlo parlare con le sue volute auliche, perché aveva un modo di parlare affascinante, certamente di un altro tempo ma bellissimo, entusiasmava anche i seminaristi che, nell'ascolto delle prediche dei Vescovi, normalmente sono piuttosto impietosi.
E vengo alla terza caratteristica, alla terza parola, che mi sembra contraddistinguere il ministero di Mons. Sperandeo, ed è la parola SOLENNITÀ.
Mons. Sperandeo aveva il pregio di trasformare, anche le cose più semplici, più banali, più feriali, in una liturgia. Forse Teano, e mi riferisco non alla Diocesi ma alla città, non ha mai conosciuto, forse neanche nei tempi aulici di cui Guido Zarone e Giulio De Monaco conoscono vita, fatti e miracoli, un tempo in cui le è stata data una dignità. Ricordo quest'espressione, che adesso farebbe sorridere, che non era detta assolutamente con ironia ma con convinzione, detta di Teano: "La città della nostra sede episcopale", la città della nostra sede episcopale, quest'espressione io immagino che riempisse i Teanesi di santo orgoglio: Allora la nostra è una città! "La città della nostra sede episcopale", poi detta con quella voce un po' nasale, un po' rauca ma solenne.
Credo che non ci fosse gesto nella vita del Vescovo Matteo che non avesse questa connotazione di solennità; oggi ne abbiamo particolarmente bisogno, sapete, forse qualcuno più smaliziato tra voi dirà: "Queste sono forme d'altri tempi, quando i Vescovi erano principi", ma c'è una solennità che fa bene al popolo, c'è una solennità che rimanda un'immagine positiva, c'è una solennità che dice della santità del ruolo. È chiaro che queste cose Mons. Sperandeo non le applicava alla sua persona, per la quale aveva una percezione di grande umiltà, ma al ruolo, al ministero, al magistero, alle cose di Dio, alla liturgia, e allora chiediamogli questi tre doni stasera, riuniti per celebrare il ventesimo, per fare memoria del ventesimo della sua liberazione, perché il giorno della morte è il giorno della nostra liberazione, non è un anniversario doloroso. Chiediamogli anche noi, in particolare vorrei che insieme con me chiedessero questi doni i presbiteri, quelli presenti ma anche quelli assenti impegnati nelle Novene, nelle Messe prefestive, chiediamo il dono della paternità.
Oggi ci troviamo in una società senza padri, tutti alla pari, i genitori non sono più genitori, non sanno più fare i genitori; i figli sono orfani all'atto in cui nascono, perché non hanno un padre, non hanno una madre, e a volte il padre, la madre, può essere anche il sacerdote, può essere il Vescovo. Quindi, Signore, rendici padri, e poi: Signore, rendici padri di molti figli. Abbiate molti figli, i nostri figli non sono solo quelli che generiamo nella carne, ma voi laici siete padri anche dei vostri alunni, padri e madri delle persone che si rivolgono a voi, se siete padrini e madrine di Cresima e di Battesimo è una forma di paternità e maternità da esercitare, ma ancor più questo valga per noi. Signore, rendici padri di molti figli, che molti possano trovare in noi un punto di riferimento saldo e dolce, austero e materno al tempo stesso.
Chiediamo anche questo dono della solennità.
Vedete, la solennità viene dal dono del Battesimo, dalla percezione della regalità, che ci è stata impressa con il segno del crisma sul capo il giorno in cui siamo stati inseriti nella Chiesa, quindi tutti, non solo il Vescovo Matteo, ma tutti, anch'io, anche Mons. Leonardo, che ringrazio della presenza, Mons. Leonardo come sempre è la memoria vivente della nostra Chiesa, anche i sacerdoti, dobbiamo incedere con questa solennità, perché rivestiti di Cristo, della sua dignità, perché tra poco diremo: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue". Lo diremo come se lo dicesse Gesù, e Gesù lo dice in noi, quindi questo momento è solenne, ma questa solennità, cari fratelli e figli presbiteri, entri anche nella nostra vita, nei nostri rapporti feriali, dove c'è una dignità da vivere, da esplicitare e da donare. Forse il popolo aspetta di essere insignito di quella solennità che a cuore aperto, a mani aperte, con grande benevolenza, passeggiando per Teano, il Vescovo Matteo dispensava a piene mani. Chiediamogli questi doni stasera, perché questa celebrazione non divenga un semplice ricordo, ma poiché il Vescovo Matteo è qui presente nel mistero dell'Eucaristia, che stiamo celebrando, egli stesso ci ottiene parti dello spirito che erano in lui.
Il Profeta Eliseo, guardando il padre Elia che veniva assunto su un carro di fuoco, chiese i due terzi del suo spirito, un po' del suo spirito. Ciascuno di noi ha un aspetto dello spirito, che è ricchissimo, e quindi possiamo chiedere: Signore, dammi un po' dello spirito di mio padre, dammi un po' dello spirito del mio Vescovo, del mio parroco, di mio padre, di mia madre. Chiediamo che quello spirito, che ha agito in essi, possa agire ed essere fecondo di parole, di opere, di testimonianza anche nella nostra povera vita
Amen.

(da Il Sidicino - Anno V 2008 - n. 1 Gennaio)