L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
 

Canto di dolore e di morte

 

Da ragazzo vivevo con uno zio che praticava l'uccellagione, che è l'arte (parola troppo nobile per quel che segue; meglio dire il metodo) di catturare uccelli vivi con reti, trappole, richiami od altri inganni.
Attualmente vietato. Il cacciatore si recava nei campi in ora propizia (all'alba), stendeva una rete sottile e mimetica sulle zolle, richiamava l'attenzione dei passeracei con fischietti o con il canto di uccelli precedentemente accecati, e quando la rete era sufficientemente affollata di volatili accorsi, ne tirava gli estremi così che una parte di rete ricadeva sull'altra, imprigionando i malcapitati.
Il punto dolente - lo è ancora - è che chi scrive assisteva all'accecamento del “richiamo”; la qual cosa avveniva conficcando negli occhi dell'uccello in cattività un ferro rovente.
Lo sfrigolio l'ho ancora nella testa e la scena negli occhi.
Dopo un certo tempo il richiamo abbacinato riprendeva a cantare ma di dolore e soavemente!
Perché al suo canto accorrevano i compagni sventurati? Quale messaggio?
Non lo sapremo mai.
Anche i pennuti catturati emettevano brevi squilli: di terrore? di aiuto? di allarme?
Prima che il cacciatore li uccidesse in modo brutale, facendo cessare il grido di morte!

Fiore d'Indaco

(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 7 Luglio)