L'ASSOCIAZIONE
 
il Sidicino
 
 

C'era una volta... la vita del vicolo

 

“C’era una volta” il vicolo, con i suoi bassi malsani, dove non entrava un fiato d’aria, abitati da tanta povera gente. Vico Ospedale Vecchio, Vico Asilo infantile, ecc. La parola povertà è una brutta cosa. Povertà significa fame, disperazione, miseria, sofferenze, umiliazioni ed offese per la dignità dell’uomo, Occupavano quei bassi famiglie formate da sette otto persone, stipate in un solo vano al massimo due, ma raramente comunicanti tra loro. Non c’erano servizi igienici, solo una tazza, in un angolo del vano, nascosta da una tenda.  Per l’acqua bisognava fornirsi alla fontana pubblica e per la cucina c’era il vicolo. Si trasportava un fornello (nel dialetto Teanese si chiamava fornacella) che consisteva in una latta dalla forma rotonda o quadrangolare, alto sessanta settanta centimetri, con uno sportellino al centro di una faccia e sulla parte superiore una griglia di ferro con orli rialzati, tenuta ad una certa altezza, da appositi sostegni in modo che attraverso lo sportellino l’aria arrivasse ai vani della griglia stessa facendo in modo che bruciasse il carbone e la cenere cadesse sul fondo del fornello e si attendeva alla cottura dei cibi. D’inverno, dopo aver cucinato, si ritrasportava in casa per riscaldare l’ambiente ed asciugare un poco di umido dalle pareti.
Il capo famiglia usciva di buon mattino, si recava in piazza Umberto e sedeva, con altri uomini, sui gradini della Casina che dal dopo guerra è stata sede del Partito della Democrazia Cristiana. Più spesso sedevano sui gradini della Posta o di Buonasera. Erano, questi ultimi, così chiamati perché: guardando verso Piazza della Vittoria, gli ultimi due locali a destra, vicino l’arco del Loggione, erano occupati dall’Ufficio Postale, mentre sui gradini a sinistra, dove tuttora c’è il Bar Faella, c’era il caffè di Buonasera. A seconda delle stagioni, occupavano i gradini: d’inverno per catturare un raggio di sole; d’estate per ripararsi all’ombra. Qui seduti, fumando un mezzo toscano o una sigaretta arrotolata a mano, di trinciato forte, aspettavano che arrivasse il carretto con i sacchi di farina per i fornai, quello con i carboni, il carretto con la carne macellata per i beccai ecc.  La maggior parte di questi uomini erano i cosiddetti “facchini”. Ma ce ne erano anche di altre categorie: muratori, imbianchini, idraulici che aspettavano di essere chiamati per qualche lavoro. Certamente non mancavano tra questi i disoccupati iscritti nelle liste di collocamento che aspettavano l’orario stabilito per andare a “firmare” la disoccupazione.
Improvvisamente il suono di una tromba rompeva il silenzio mattutino: erano La Titella o Cazzanio. Il primo di mestiere carrettiere e banditore; il secondo banditore e facchino. Questi due signori meriterebbero una menzione a parte ma,  un accenno è d’obbligo. La Titella, anziano, dalla statura tozza, molto grasso,  sempre allegro e pronto a dire sproloqui e a riderne era il primo,  dopo un lungo squillo di  tromba, non cominciava mai l’annuncio col dire: Concittadini oppure Signore e signori. Diceva: Aminali! E poi i vari annunci; “Oggi è venerdì , da La Roccetta  è arrivato il pesce fresco, stoccafisso e baccalà. Se non avete i soldi vi fa credenza (credito), potrete pagare quando vorrete ma l’offerta è valida solo fino alle dieci perché la merce finisce tutta. Correte a cucinare e fatevi la pancia.” Ed ancora:  “Aminali!”, questo sostantivo per lui era d’obbligo, “alla chianca (macelleria) vicino a Nicola a cazetta , a crapettella del Matese a una lira e mezzo e c’è l’ha appesa”. Oppure:  “Aminali! Per un guasto alle tubature, l’acqua resterà chiusa dalle otto di domani fino alla sera. Rifornitevi di più acqua e fatevi il bagno perché puzzate”. Man mano che girava per la città era sempre più circondato da bambini e ragazzi che facevano un gran frastuono divertendosi molto per le frasi sconnesse che diceva.
Verso le nove, nove e mezzo, uscivano le donne  soprattutto le moglie dei facchini che si avvicinavano ai rispettivi mariti per farsi dare i pochi spiccioli che avevano guadagnato per l’acquisto del pane. Per il resto della spesa si aspettava mezzo giorno. Se i soldi guadagnati erano sufficienti per mettere qualcosa sulla tavola si comprava: qualche chilo di pasta, un poco di conserva, un poco di strutto e qualcosa per cena. Ma più spesso accadeva che i soldi non erano sufficienti ed allora ci si recava a comprare le stesse cose  ma a credito. Il salumiere scriveva in un doppio quaderno, uno per se l’altro per la cliente, la merce consegnata ed il corrispettivo da pagare. A fine settimana, a fine mese o quando prima veniva saldato il debito o parte di esso.
C’erano poi altri bassi, nei vicoli S. Lazzaro, Capricorno, Palombaia ecc., vicoli più stretti e più scuri di quelli del centro, quasi sempre senza sole, per le case alte che li fiancheggiavano impedendo ai raggi di scendervi diritti. Un poco di luce ed un raggio di sole si vedeva per qualche ora verso mezzogiorno. Qui le famiglie, erano forse più numerose. L’arredamento era uguale all’altra realtà, ma avevano in casa anche animali da cortile da allevare; non solo ma, anche una capra, o una pecora, l’immancabile maialino, ed alcuni anche un asino. All’alba si apriva l’uscio per fare in modo che gli ospiti raggiungessero il vicolo ed anche per cambiare un poco di quella aria pesante che era stagnata durante la notte. All’alba uscivano anche gli uomini, dei quali molti lavoravano presso gli ortolani. Si perché Teano era ricchissima di orti, anzi era circondata da orti; l’attuale rione De Gasperi, viale S. Antonio, il Pioppeto,  la zona di Loreto, Rione Carità e Rione Pastene.  Più tardi, d’estate e d’inverno, si sentivano bambini piangere sulle soglie di casa, mentre altri si rincorrevano nei vicoli tra pollame e conigli. Bambini che si svegliavano presto affamati e non davano tempo di mungere la capra, di far bollire una scodella di latte, di tritarvi dentro una fetta di pane. Bambini che frignavano per non farsi lavare o che litigavano per un bottone di metallo. E le donne! Le donne sempre in faccende; si vedevano attraversare il vicolo con secchi pieni di acqua e poco dopo con fasci di legna da ardere o col canestro di vimini in equilibrio sulla testa, pieno di panni sporchi, recarsi al lavatoio pubblico per lavare e sciorinare. Un piccolo boccone ai bambini e via negli orti dove erano i mariti a vangare o zappare, mangiare insieme la colazione, qualche minuto di riposo e giù a tirare fuori dalle zolle la gramigna. Facevano con quest’ultima dei grossi fasci ed all’imbrunire li portavano in piazza e li vendevano ai vetturini. Poi di nuovo a casa a preparare il pranzo e la cena che era l’unico Pasto del giorno. Gli uomini lavoravano come schiavi dall’alba al tramonto e le donne non erano da meno. Intere giornate con i vecchi ed i bambini, alle prese con il lavoro domestico, il lavoro negli orti, la cura dei figli e dei genitori  e le loro giornate scorrevano senza gioia e senza riposo. Una vita dura per queste donne che vedevano sfiorire la loro giovinezza in una esistenza grigia, fatta di sacrifici e di rinunce. “C’era una volta” anche questo.
Oggi, quella povera gente non c’è più, non ci sono più quei bambini che allegri si rincorrevano nei vicoli scordando la fame e la povertà. Anche molti di quei vicoli non ci sono più. Dopo i bombardamenti dell’ottobre del 43 ed i terremoti successivi, la ricostruzione delle case ha permesso l’allargamento di molti vicoli e dove prima c’erano i bassi oggi ci sono portoni, cancelli con accesso a giardini pensili, che s’affacciano su Viale Europa, o garage.
Uno di quei bambini del vicolo, caro  “Il Sidicino “, sono io che come tanti miei coetanei siamo andati via a diciannove anni,  o dopo il servizio di leva: in  Svizzera,  Germania ed i più fortunati a Milano o a Roma. Molti di noi, non più giovani, lasciando i figli con le loro famiglie siamo ritornati a Teano. Abitiamo in posti diversi nella città che si è allargata intorno al centro storico e quei vicoli oggi,  soprattutto il mese di luglio, sono visitati da centinaia di persone, in occasione di manifestazioni organizzate dall’Associazione Il Campanile.
Spesso con mia moglie, anch’ella figlia di quei vicoli, veniamo a visitare i nostri bassi ormai trasformati, e le nostre menti si affollano di ricordi. Qui vediamo ancora quelle persone ricordate più dai loro nomignoli cha che dai loro veri nomi.  Qui c’era Zucculiglio e qui il Morbo, e qui Clementina a pazza, u Rignante, u Patanaro, Masto Luigi Pipiscia e Puppucia, Emilio tre diente, (Tre Denti) Lucarella, u Craparo, Brusutto, u Scartapezza,  a Caciotta, Sanniente e tanti altri, sempre pronti a rimproverarci  per il chiasso che facevamo.
Di tutto e di tutti questi non c’è più niente. C’è solo più luce in quei vicoli e  ci sono case attintate di fresco, giardini fioriti e ben ordinati ed il silenzio, rotto solo da qualche macchina in arrivo o la musica di un televisore acceso. Non c’è più quel mondo e… la mia  fanciullezza.

L’emigrato

(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 4 Aprile)