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Un'inedita "reliquia" del Medio Evo teanese:
la matrice sigillare di Donna Delfina,
badessa del monastero di Santa Maria de Foris
 

Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia
Matrice sigillare di Donna Delfina
 

Come è noto, il sigillo era ed è un marchio utilizzato, fin dall’antichità, per garantire l’autenticità o proteggere da eventuali manomissioni un documento. Si possono differenziare in sigilli ad inchiostro, usati per contrassegnare documenti cartacei, e in sigilli a rilievo ottenuti mediante l’impressione di un modello su una sostanza malleabile che si indurisce in fretta (come argilla bagnata, cera riscaldata, gommalacca o piombo), che vengono usati, invece, per impedire l’apertura di una busta o di un qualsiasi altro contenitore. Con lo stesso termine sigillo sono tuttavia indicate anche le matrici sigillari altrimenti denominati tipari, generalmente di metallo o pietra, sulle cui superfici sono incise, singolarmente o insieme, figure simboliche e/o epigrafi, da cui si ricava l’impronta.
Una delle più importanti collezioni di matrici da sigillo antiche, la “Raccolta Pasqui”, è conservata nel Gabinetto di Sfragistica del Museo Nazionale di Palazzo Venezia di Roma. Composta dal noto archeologo aretino Angelo Pasqui tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, avvalendosi anche della consulenza del fratello Ubaldo - un uomo di multiforme ingegno, archivista, diplomatista, storico, paleografo, archeologo, glottologo, bibliografo e storico dell’arte, oltre che esperto di sfragistica - l’intera collezione, ricca di ben 433 matrici, fu venduta al museo romano, nel 1922, qualche anno dopo la morte del proprietario, dalla vedova Augusta Gherardi.
La preziosa collezione annovera, tra le altre, un’interessante matrice medievale proveniente da Teano: si tratta di una matrice relativa ad un sigillo cosiddetto ecclesiastico, in quanto appartenente ad una badessa del locale monastero di Santa Maria de Foris, vieppiù importante perché non abbiamo altre testimonianze sigillografiche medievali per questo ambito geografico. Il reperto fu verosimilmente acquistato dal Pasqui sul mercato antiquariale di Napoli o forse da un rigattiere nella stessa Teano durante una delle sortite che l’archeologo era solito fare nell’entroterra campano durante il biennio 1896-97 allorquando, in qualità di ispettore, fu incaricato dalla Direzione Centrale per i Musei e gli Scavi di Antichità di seguire l’esplorazione della villa rustica romana della Pisanella scoperta a Boscoreale l’anno precedente.
La matrice si presenta - al di là di una piccola concrezione nell’apice superiore, dovuta al consueto appiccagnolo funzionale alla sua sospensione ad una catenella per essere immediatamente disponibile, e di pochi e quasi impercettibili segni di consunzione, che non pregiudicano peraltro la lettura delle figure e della leggenda - in un eccellente stato di conservazione, dovuto, forse, anche ad un suo limitato e breve utilizzo da parte della titolare. Alla pari della maggior parte della produzione coeva, la matrice risulta fabbricata in bronzo - il metallo più largamente utilizzato, unitamente al ferro e all’ottone, per la produzione di tipari sigillari nel periodo medievale - e si configura in forma ovale, colle estremità acuminate, secondo una morfologia detta “a navetta” o “a mandorla”, già identificativa, di per sé, dei sigilli ecclesiastici. In proposito si rammenta che nell’iconografia medievale l’aureola “in guisa di mandorla” era utilizzata per incorniciare i segni della maestà e della gloria di Dio, ossia Dio stesso, Cristo giudice, la Vergine con il Bambino. Ed è proprio quest’ultima figura, raffigurata frontalmente nella sua interezza, mantellata, con il Bambino adagiato sul braccio destro, ad occupare, entro un’edicola trilobata, su un fondo decorato a losanghe e cerchietti, i due terzi del campo della matrice, le cui dimensioni, misurate nei due assi, corrispondono rispettivamente a 39, 2 e 63,4 millimetri. Nel registro inferiore entro una nicchia a tutto sesto è effigiata la titolare, che genuflessa, in posizione orante, volge il capo leggermente a sinistra verso la Vergine come ad invocarne la protezione; non a caso, ai lati della nicchia due scudi appuntiti accolgono altrettante coppie di delfini, che oltre ad evocare il nome della badessa, erano notoriamente considerati, nella simbologia medievale, lo strumento divino delle forze benefiche contro quelle oscure. Il campo è delimitato da due sottili fili contenenti l’epigrafe incisa in caratteri gotici che, preceduta dal consueto signum crucis tipico delle leggende sigillari, recita:

+. S. DNE. DALFINE. ABBATISSA. MON. SCE. MARIE. D. FORIS. T. TEAN

Epigrafe che ho ritenuto sciogliere nel seguente modo: Sigillum Dominae Dalfine Abbatissa Monasterii Sanctae Mariae de Foris to Teanum

Sigillo della Signora Delfina badessa del monastero di Santa Maria de Foris a Teano

Ma chi fosse questa badessa Delfina non è dato sapere. Per quanto indagini abbia effettuate non ho purtroppo trovato alcuna traccia di lei; e tuttavia, pur in assenza di documentazioni storiche, desumo che fosse vissuta nel XIII/XIV secolo, epoca in cui è possibile datare, con buona approssimazione, sulla scorta dell’analisi degli aspetti stilistico-iconografici, la matrice sigillare in oggetto. Allo stesso modo non è stato possibile individuare l’artefice della matrice. Della categoria dei factores sigillorum, come erano indicati gli addetti alla loro produzione, costituita sia da incisori specializzati, sia da generici artigiani fonditori, non sono pervenuti, infatti, che rarissimi nomi, men che meno dall’area campana. Quando alla tecnica usata per ottenere queste matrici, dopo un primo ricorso all’utilizzo dell’incisione a bulino prevalse quella cosiddetta “a cera persa” consistente nel creare un modello di cera da cui si ricavava uno stampo dove si colava il metallo, ottenendo per fusione la matrice, successivamente rifinita al cesello. Circa il loro impiego va evidenziato che queste matrici erano utilizzate per realizzare impronte su carta o ceralacca, che in epoca medievale era costituita da una miscela di cera d’api, trementina di Venezia e materia colorante, solitamente vermiglio. Nel primo caso veniva versata una piccola quantità di cera d’api sulla parte inferiore del documento sulla quale veniva apposto un sottile strato di carta. Imprimendo la matrice, la carta superiore si sagomava sulla cera sottostante rivelandone il disegno. Nel secondo caso, invece, la ceralacca, dopo aver subito un leggero riscaldamento veniva impressionata dal tipario mediante una leggera pressione e il dischetto che si otteneva veniva ancorato alla pergamena mediante un cordoncino di seta, lino o canapa fatto passare attraverso due fori praticati nella parte inferiore di essa dopo averla appositamente piegata per formare una piccola plica che ne aumentasse la resistenza. Non poche volte, però, quando il documento conteneva notizie di carattere riservato la pergamena veniva piegata più volte e la ceralacca applicata direttamente sull’ultima plica a mo’ di collante prima di essere impressionata dal tipario.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 7 Luglio)

Teano - Monastero di S. Maria de Foris - Fontana
(foto di Mimmo Feola)