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Ignazio Giovanetti, un dimenticato poeta dialettale
teanese dell'Ottocento
 
 

Tra gli scrittori e poeti in dialetto napoletano registrati da Pietro Martorana nelle sue Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto Napolitano, edite a Napoli nel 1874 presso Luigi Chiurazzi Editore, ci piace ricordare anche la figura di un teanese, per lo più sconosciuto ai suoi compaesani, quel Ignazio Giovanetti, che, figlio di Ignazio e Margherita Cajazzo, era nato nell’antica città sidicina il 9 novembre del 1817. Le scarne fonti sul suo conto ci informano che ancora molto giovane fu mandato a studiare a Napoli e che per un’innata «versatilità del suo ingegno» si applicò prima agli studi di scienze naturali, successivamente a quelli di medicina, per poi dedicarsi all’insegnamento. Ciò in cui riuscì maggiormente fu, però, la poesia dialettale. In questa veste fu, con Ferdinando Bottazzi, Pietro Martorana e Carlo Rocchi junior, ossia con tre dei maggiori poeti dialettali napoletani dell’epoca il co-autore della Nferta pe lo Capodanno de li Quatto de lo Muolo, laddove il sostantivo nferta era ed è tuttora (dal momento che è stato riproposto anche nel nostro tempo) il termine dato ad un opuscolo, un libretto, che un autore o gli autori realizzavano indifferentemente per Natale o Capodanno come omaggio d’arte e buon augurio ai parenti e agli amici più cari. In esso venivano raccolte composizioni in prosa o poesie, canzonette o commediole che non sarebbe stato facile proporre in un’opera compiuta. Secondo la maggior parte dei dialettologi la parola deriverebbe dal verbo latino obfero = offrire per indicare giusto appunto un’offerta; secondo Renato De Falco, scrittore e filologo napoletano autore di numerosi testi sull’etimologia e sulle espressioni dialettali partenopee, il termine deriverebbe, invece, dal verbo infero = infarcire nel senso di riempire, insaccare. In ogni caso - dopo un primo momento in cui la parola ebbe, per lo più, il significato di elemosina, per poi assumere in seguito quello di canto di accompagnamento alle prestazioni di giullari e cantastorie quanto non anche alle questue degli accattoni in giro per Napoli - solo a partire dal 1780, allorché Luigi Serio (poeta, librettista, revisore teatrale e soprattutto strenuo difensore del vernacolo) confezionò quella che fu la prima Nferta, il termine passò ad indicare, anche un omaggio natalizio letterario.
L’iniziativa sarebbe stata portata avanti negli anni successivi, diventando una tradizione, oltre che dai Nostri da altri autori tra cui Giulio Genoino, il più prolifico con una serie iniziata nel 1834 e terminata nel 1856, Michele Zezza, Luigi Cassitto e Domenico Iaccarino, fino a che interrottasi improvvisamente, fu ripresa nel 1956 da Max Vairo per poi continuare - come si preannunciava - anche nella nostra epoca. Tornando alla Nferta pe lo Capodanno de li Quatto de lo Muolo, va innanzitutto sottolineato che essa ebbe solo due edizioni, nel 1859 e l’anno successivo, presso l’editore Luigi Chiurazzi, la cui sede era al Largo delle Pigne, l’attuale Piazza Cavour. Quanto allo pseudonimo li Quatto de lo Muolo, con cui si autodefinirono i quattro curatori della Nferta si può ipotizzare che l’appellativo fosse stato utilizzato facendo riferimento alla rappresentazione dei quattro fiumi, il Tigri, l’Eufrate, il Gange ed il Nilo, i più grandi fiumi dell’umanità allora conosciuti, immortalati dallo scultore Giovanni Merliano da Nola e dall’allievo Domenico D’Auria, nell’omonima fontana monumentale fatta erigere alcuni secoli prima dal viceré Pietro Afan di Ribera, duca d’Alcalà, sul molo della Lanterna e poi fatta rimuovere dal suo successore Pedro Antonio de Aragon per riposizionarla nel giardino della sua casa di Madrid. La fontana, come ricordano alcuni compilatori delle guide del tempo (Carlo Celano, Pompeo Sarnelli) si prestava, infatti, facilmente al sarcasmo dei napoletani (in questo caso nei confronti di chi avversava l’uso del dialetto nei componimenti letterari) per l’insolita postura dei vecchietti che, allegoricamente, simboleggiavano i quattro fiumi, rappresentati accovacciati, come chi s’appresta “a liberarsi di corpo” in una latrina alla turca.
Nel 1866, dopo le due Nferte, Giovanetti partecipò con due sonetti ad una nuova raccolta, Fascio de chellete nove contegnose e freccecarelle fatte da paricchie auture pe llevare la paturnia a li pierdetiempe, raccuoreto e prubecato da Jachil Girì Zuzù (pseudonimo di Luigi Chiurazzi). I due sonetti portano il titolo di Sfuoco e A lo Sio’ Jacolillo Marulli Resposta a la smestuta soja con quest’ultimo composto giustappunto in risposta ad un sonetto dedicatogli da Giacomo Marulli, famoso commediografo napoletano del tempo.
Precedentemente era invece rimasta inedita una poesia che Giovanetti aveva composto per una raccolta di Poesie in dialetto Napoletano ed in Italiano in occasione delle nozze di Pietro Martorana con Carolina Ciardi il 2 Luglio 1847, alla quale avevano partecipato, tra gli altri, anche con epigrafi e lettere, alcuni importanti autori dialettali come Tommaso Bonito, Antonio Tasso, Carlo Rocchi senior, i già citati Michele Zezza, Ferdinando Bottazi e Carlo Rocchi junior, Gennaro De Cesare, Gaetano Micci, Gaetano Valeriani, Felice Barilla e Angelo Santilli.
La raccolta, rimasta manoscritta in 48 fogli, non fu stampata a causa del coinvolgimento di alcuni degli autori ai moti rivoluzionari che agitarono Napoli tra il 1847e il 1848 come lo stesso Martorana annotò in margine al titolo: «Queste poesie doveano stamparsi, ma cominciati gli arresti nel 1847 per i tumulti che scoppiarono il 27 gennaio 1848, se ne dismise il pensiero». Il manoscritto, già conservato nella Biblioteca della Certosa di San Martino di Napoli, come riporta Carlo Padiglione in una pubblicazione a stampa del 1876, è attualmente custodito presso la Biblioteca Nazionale della stessa città. Null’altro si conosce della vita di Giovanetti - definito, peraltro, senza spiegazione alcuna «sventurato» dal Martorano - se non che morì a Napoli il 13 febbraio del 1870 e che otto anni dopo, nel numero del 1̊ dicembre del 1878, la rivista Lo Spassatiempo Vierze e prose nove e becchie - edito dall’Accademia “I Filopatridi de Napole”, diretta da Luigi Chiurazzi e dedita allo studio e alla valorizzazione della lingua napoletana, pubblicava “No suonno”, un’inedita poesia che il poeta aveva scritto nel lontano 1859.

Franco Pezzella
(da Il Sidicino - Anno XVIII 2021 - n. 4 Aprile)