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Lucio Mesolella racconta la sua guerra e la sua prigionia in

Africa
 
 

Lucio Mesolella, nato a Teano il 1 gennaio 1922 da Pasquale Mesolella e Maria Silvestri, ha 93 anni ed una memoria di ferro. Nonostante la guerra, la prigionia, l'età e la lunga militanza nei circoli “Mario Fani”, nei Comitati Civici, nelle Acli, nell'Azione Cattolica e nel sindacato, i ricordi di guerra in Africa sono ancora indelebili nella sua mente. E li ha raccontati il 27 aprile scorso, nella Piccola Libreria 80mq a Calvi Risorta, in occasione della presentazione del libro “Volti dimenticati”. Una buona occasione per sentire la sua storia di cooperatore al fronte. Perché, si sa, l'opposizione ai tedeschi non l'hanno fatta solo i partigiani ma anche i tanti soldati italiani prigionieri di guerra che hanno cooperato con gli inglesi contro i tedeschi. Soldato di leva della classe 1922, fu ammesso in ritardo al servizio militare perché iscritto all'ultimo anno dell'Istituto Magistrale a Napoli. Il 3 ottobre 1942, poi, fu aggregato a Salerno nel 15° Reggimento Fanteria con matricola 13908; dopodichè, il 30 gennaio 1943, fu trasferito al 100° Rgt Fanteria di marcia e vi rimase fino a quando il 12 febbraio 1943 non fu imbarcato in aereo a Castelvetrano in Sicilia per sbarcare a Tunisi, dove rimase in territorio di guerra tre anni, la maggior parte dei quali come prigioniero. Combatté come caporalmaggiore nel 65° Rgt Fanteria “Trieste” mobilitato (con matricola 13908), dal 12 febbraio al 6 aprile 1943, quando, durante la battaglia di Mareth in Tunisia, fu fatto prigioniero dagli Inglesi e recluso nel campo di concentramento 308 di Alessandria d'Egitto dove rimase dal 6 aprile 1943 al 27 luglio 1946. Rimpatriò da Port Said ma, sbarcato a Napoli il 27 luglio 1946, fu trattenuto nell'ospedale militare a causa di un'infermità di servizio prima di essere trasportato a Ducenta.
Al fronte
“Fui richiamato – spiega - con la classe 1922 e fui inviato a Salerno nel 15° Reggimento Fanteria. Partimmo dall'aeroporto di Castelvetrano, diretti in Tunisia, con lo scopo di arginare l'avanzata inglese, perciò subito ci portarono in prima linea, sul fronte di Mareth. Dopo pochi giorni però, ripiegammo verso la montagna. Tra di noi e gli Inglesi c'era un grande campo minato. Sostammo circa un mese sotto i bombardamenti aerei, ma a marzo, mentre le truppe americane sbarcavano in Algeria, gli inglesi ci attaccarono sul fronte tunisino. Fui fatto prigioniero il 6 aprile 1943, all'alba: il campo minato era pieno di fumo. In un primo momento credevamo che fosse gas, invece avevano lanciato delle bombe lacrimogene. All'improvviso comparvero i fucilieri inglesi, scozzesi e indiani, che ci intimarono di alzare le mani: a destra e a sinistra si vedevano italiani che scendevano dalla montagna con le mani alzate. E poi si vedevano per terra tanti morti che erano saltati sulle mine. Dopo un chilometro di cammino con le mani alzate (eravamo in migliaia perché accerchiati davanti e dietro), uscimmo dal campo minato e ci trovammo raggruppati in un campo di raccolta, guardati a vista dalle guardie indocinesi, mezzi nudi, nel freddo della notte”.
Al campo Amallaga di Tripoli
“Il mattino seguente ci caricarono su un camion e ci portarono in un campo di smistamento ad Amallaga di Tripoli dove l'Italia aveva un circuito per le corse automobilistiche. Tripoli, infatti allora, con tutta la Libia, era territorio italiano. Qui incontrammo altri prigionieri italiani. Da questo campo i prigionieri venivano smistati per il mondo: dall'Inghilterra al Sudafrica. Dal campo di Tripoli, su navi indiane e pescherecci inglesi, fummo trasportati in Egitto, sotto le stive, al buio, con le insegne “trasporto prigionieri”: le navi, invece, erano cariche di truppe di tutte le razze, che dovevano sbarcare in Italia. Noi avevamo paura dei sommergibili italiani che avevano già colpito diverse navi, transitate in precedenza. Dopo alcuni giorni, grazie a Dio, arrivammo a Suez: non ci vedevamo più per la fame, e per scendere dalla nave ci davamo la mano uno con l'altro.
Al campo 308 di Rosetta - Alessandria d'Egitto
Da Suez ci portarono nei pressi di Alessandria d'Egitto nel campo 308 di Rosetta, dove vi erano più di 100 mila prigionieri chiusi in “gabbie” recintate da fili spinati elettrici ed eravamo guardati da sentinelle armate indocinesi poste su delle torri di guardia. Le guardie indocinesi erano tagliatori di teste, ai fianchi portavano un coltello ed un mitra e la sera sparavano continuamente contro ogni ombra che vedevano avvicinarsi. Lungo il perimetro del campo infatti vi erano numerosi gabinetti a fosso maleodoranti. A causa del troppo caldo e del vitto sempre uguale (piselli con carne di pecora), avevamo preso l'intercolite, per cui avevamo sempre il desiderio di andare al bagno ed eravamo costretti ad andarci spesso. Nello stesso campo, ma in altre “gabbie”, vi erano anche prigionieri tedeschi. Ogni tanto mancava qualcuno dalla tenda. Dormivamo venti persone per ogni tenda, allestita in mezzo alla sabbia, e quando qualcuno spariva, nessuno si preoccupava. Anzi si faceva spazio... Ogni mattina passava un sergente inglese e domandava in quanti eravamo rimasti per portarci il pane. Una volta a settimana, ci facevano fare il bagno a mare che si trovava a circa 200 metri dal campo. Per il resto stavamo sempre nella tenda perché fuori faceva molto caldo di giorno e freddo di notte. E poi nella sabbia vi erano molti insetti che ci tormentavano”. Il 6 marzo 1947, gli arrivò a Teano una lettera scritta da don Francesco Emmanuel da Barletta che tra le altre cose gli scriveva: “Ricordo sempre l'aiuto che mi ha dato dappertutto, specialmente nel campo 308”.
Radio Londra comunicava che le nostre truppe ripiegavano su tutti i fronti: sconfitti in Russia, in Grecia, in Italia, in Albania, mentre i prigionieri arrivavano ogni giorno.
Nel campo vi era una radio clandestina, costruita dagli stessi prigionieri, che trasmetteva notizie anche dell'Italia, così apprendemmo della caduta di Mussolini, dello sbarco a Salerno, in Sicilia e a Nettuno, della fuga del Re Vittorio Emanuele in Egitto e dei bombardamenti a Cassino. L'Italia era divisa tra Nord e Sud e la popolazione moriva di fame.
Al campo 680 di Gerusalemme
“Con l'Armistizio facevano circolare giornali francesi ed inglesi nel campo e gli inglesi si avvicinavano ai prigionieri per vedere se c'erano volontari pronti a tornare in Italia per liberarla dall'occupazione tedesca.
Ci dicevano che in Italia già operavano i Comitati di Liberazione e i partigiani. Io allora entrai a far parte della 2746^ Compagnia di lavoratori cooperatori degli inglesi e vi restai fino al 10 luglio 1946. In tanti andarono in India, Inghilterra, Sud Africa, Kenia ecc. io invece andai in Palestina, al campo 680 di Gerusalemme, al comando di una squadra che assisteva ufficiali inglesi che tornavano dal fronte per curarsi presso un albergo dove c'erano attendenti, cuochi, infermieri, ed avevo un permesso speciale per uscire dal campo al mattino e ritornare la sera, dopo la cena degli ufficiali. Per questo motivo ho avuto la possibilità di visitare la Città Santa di Gerusalemme e di andare a Betlemme, Betania e negli altri luoghi santi dove mi ingegnai anche a fare da guida.
Intanto la guerra continuava verso Tunisi dove le nostre truppe venivano sconfitte e gli Alleati si preparavano allo sbarco in Italia. In quel periodo gli Inglesi interrogavano i prigionieri.
Ricordo che nel campo di Amallaga a Tripoli c'era una casupola con alcuni uffici dove portavano ad uno ad uno i prigionieri per conoscere il loro paese d'origine, il reggimento ed il luogo dove avevano fatto il militare. Gli inglesi ci portarono in un casamento e lì ci interrogavano per conoscere i luoghi dove dovevano sbarcare in Italia. Ci chiedevano, per esempio, di Salerno per capire com'era il mare, com'erano le sue coste, com'era distante la città dal mare. Ci interrogavano e dopo l'interrogatorio ci facevano uscire da un'altra parte della stanza in modo tale da non farci incontrare i compagni. Prendevano tutte le notizie che per loro erano utili per lo sbarco in Italia. Interrogavano i siciliani per informazioni sulla Sicilia, i campani e i laziali per informazioni su Salerno, Nettuno, Cassino... Da Tripoli, poi, ci trasferirono con la nave ad Alessandria d'Egitto e a Suez. Intanto trasmettevano, attraverso la radio, che portavano prigionieri italiani perché a Tobruk, c'erano i sommergibili italiani che bombardavano le navi che transitavano anche se portavano i prigionieri. Nelle navi, del resto, c'erano pochi prigionieri italiani e in gran parte truppe da sbarco inglesi dirette in Egitto e in Italia. Per questo, quando ci portarono in Egitto avevamo paura che i sommergibili italiani ci colpissero. Grazie a Dio, però, dopo 15 giorni di navigazione, arrivammo a Suez e ci portarono nel campo 308 di Tripoli dove c'erano molti italiani. Qui ci trattavano male perché eravamo in tanti e mancavano sia il cibo che acqua. In pochi giorni infatti avevano fatto migliaia di prigionieri e noi dovevamo fare la guardia, a turno, sotto il sole, per vedere quando arrivavano le autobotti dell'acqua. Spesso stavamo giornate intere, sotto il sole, ad aspettare l'arrivo dell'acqua e del cibo.
Ci facevano interrogare dagli ufficiali maltesi che parlavano l'italiano, per vedere se volevamo andare a combattere in Italia con loro, oppure se volevamo entrare nel corpo dei cooperatori. Io, come ho già detto, decisi di entrare nella compagnia dei cooperatori. Molti prigionieri invece andarono in Inghilterra, altri in Kenia, altri ancora in Italia, mentre io rimasi nella Compagnia 2746 in Egitto, tra Gerusalemme e Betlemme: facevamo servizio nelle officine, sostituendo gli inglesi che andavano a combattere in Italia. Io in particolare, mi trovavo in un reparto di camerieri, attendenti e panettieri, in un campo dove si trovavano ufficiali Inglesi provenienti dal fronte di Cassino. In questo campo c'erano indiani, estafricani, indocinesi.... Ed io avevo un permesso speciale inglese con il quale potevo girare nel campo per servizio.
Suor Chiara
Vicino al posto dove lavoravamo c'erano una chiesa ed un convento delle Suore Clarisse Francescane di clausura. Ricordo ancora, con riconoscenza, una suora italiana, suor Chiara Verrini di Busto Arsizio, che ha fatto molto per aiutare noi prigionieri. Ci dava del cibo e soprattutto medicinali quando avevamo problemi di salute.
A Gaza. Il ricordo di Fattore
Quando dovevo venire in Italia, da Suez mi hanno portato a Gaza dove un bombardamento provocò un macello: gente che moriva e feriti nella sabbia del deserto. Ad un certo punto sentii la voce di un soldato che diceva “San Vitaliano, san Vitaliano, aiutami! Aiutami!”
Pensai che fosse delle mie parti, allora mi rivolsi verso di lui, che era pieno di sabbia e fango e gli chiesi: ”Di dove sei?”. Lui mi rispose in dialetto: ”Sono della provincia di Napoli, di Sparanise”. “Ah sei della provincia di Napoli?- continuai – e come ti trovi qua?” Rispose: “Mi trovo qua perché sono scappato di notte dalla Grecia. Siccome i tedeschi in Grecia ammazzano gli italiani sono scappato, mischiato tra le truppe da sbarco, per arrivare in Palestina e a Gaza”. Dopo quelle parole non ci siamo visti più. Mi portarono a fare la quarantena a Suez e poi con la nave mi portarono ad Alessandria d'Egitto dove c'era un soldato che parlava con altri commilitori e diceva: ”Chissà se arriveremo in Italia?” Io gli dissi:”Prima o poi dobbiamo arrivare. Abbiamo resistito anni di prigionia, arriveremo anche in Italia. Ma tu chi sei? “Io – disse - sono di Sparanise. Allora gli chiesi: “A Gaza ho incontrato un soldato ferito di Sparanise, un certo Fattore che veniva dalla Grecia, lo conosci?” “Si – mi rispose – lo conosco, non l'ho visto, non so che fine abbia fatto!”
A Napoli
Quando siamo ritornati a Napoli, invece di farci sbarcare la sera, ci hanno fatto scendere dalla nave il giorno dopo, perché dissero che c'erano dei contrabbandieri... Poi ci hanno portato a Ducenta di Aversa il 27.7.1946. Intanto, siccome c'erano le famiglie che quando arrivava qualche prigioniero, si andavano ad informare sui loro figli perché la maggior parte dei soldati erano dispersi e non ricevevano notizie, la mamma di Fattore, (il soldato visto a Gaza durante il bombardamento), andò a chiedere notizie del figlio al soldato di Sparanise che avevo incontrato a Suez e che era rientrato in paese. Lui le disse che non lo aveva visto ma che aveva conosciuto un ragazzo di Teano che gliene aveva parlato. La povera donna, allora, ebbe un sussulto di incoraggiamento perché disse: “Quelli (i fascisti) mi hanno già fatto fare il funerale!” Così, la notte, da Sparanise attraverso Montanaro, è venuta a Teano. Io ero arrivato la sera prima e tutta la notte non ero riuscito a dormire. All'alba la donna è arrivata a casa mia, a Sant'Agostino. “Ma è vero – mi chiese – che avete visto mio figlio?” “Si, l'ho visto! Mi ha anche detto che veniva dalla Grecia”. La povera donna quasi sveniva davanti a me. Dopo otto mesi finalmente Fattore ritornò e i genitori mi invitarono a casa loro, in Via Le Castagne a Sparanise. Io sono sceso dal treno ed ho chiesto la strada ad un vecchietto che fumava la pipa davanti ad una falegnameria. “Scusate – gli chiesi – sapete dove abita Fattore?” “Quello che portavano per morto?”. Mi rispose. “Si”, continuai io, e mi indicò la strada” Quel vecchietto, Giovanni D'Angelo, dopo cinque anni, è diventato il nonno dei miei figli.

Paolo Mesolella
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 9 Settembre)