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Sparanise. Ricordo di Don Francesco D’Angelo a cento anni

dalla nascita
 
Il Tenente Cappellano tre volte condannato a morte dai nazisti, oggi del tutto dimenticato
 
 

L'anniversario del Centenario della nascita di Don Francesco D'Angelo non può essere dimenticato. Il ricordo di questo religioso ed educatore raffinato, deve essere consegnato intatto ai giovani studenti sparanisani. A Sparanise, per la verità, non mancano spunti di analisi per riflettere sul passato: dal campo di concentramento tedesco alle vittime degli eccidi nazisti del 22 ottobre 1943.
Ma c’è una pagina di storia locale che ha a che fare con i campi di sterminio nazisti e che è rimasta finora inedita e dimenticata.
È quella relativa al Tenente Cappellano Don Francesco D’Angelo, nato a Sparanise il 16 maggio 1914, deportato in Germania dal 1943 al 1945 e scampato alla morte dopo tre diverse condanne a morte. Don Francesco D’Angelo era figlio di Giuseppe e Assuntina Marotta. Aveva due fratelli mannesi oggi scomparsi, (Giovanni e Salvatore) e conseguì la licenza liceale presso il reale liceo di Chieti.
Ancora giovinetto entrò nella congregazione religiosa de “I Discepoli” di Padre Minozzi e aveva 28 anni quando partì volontario come Tenente cappellano al fronte. Prima di partire, era diventato vicedirettore e insegnante diitaliano e latino ad Ofena (Aq) nel liceo ginnasio dell’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. Era insegnante severo, ma preparato: conosceva a memoria perfino i brani in prosa degli autori latini. Dopo Ofena, aveva girato per le altre case dell’Opera: fu direttore a Chieti e all’Istituto "Principe di Piemonte" di Potenza dove, nel 1942, ebbe la lettera di nomina a cappellano militare senza aver presentato alcuna domanda. Fu dapprima destinato al battaglione di assalto in Russia, come Tenente del 252° treno ospedale da campo "Torino". Poi il treno cambiò destinazione e andò a Saint Rafael nel sud della Francia. Qui don Francesco rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 quando fu condotto con altri prigionieri nel campo di concentramento ad Orange. Dopo alcuni giorni, però, i prigionieri italiani scapparono e lui, benché non sapesse niente dell’accaduto, fu accusato di favoreggiamento. Una commissione militare venuta da Avignone, lo condannò a morte. Solo una richiesta di grazia lo liberò dall’incubo della morte, ma non gli evitò la deportazione in Germania. Per la strada, alla stazione di Digione, una bomba fece saltare il treno e lui aiutò i tre infermieri a portare i feriti all’ospedale.
Poi decise di restare ad Avignone: si travestì e si nascose con altri prigionieri italiani in una casa per anziani diretta da suore. Ma i tedeschi lo rintracciarono e non credettero al suo racconto della bomba e dei feriti. Ricorda Don Francesco nelle sue memorie (Evangelizzare, agosto 1994): "Per il corso disseminato di cadaveri arrivammo in piazza dove ci diedero ancora un’altra condanna. Poi ci rinchiusero in uno scantinato. L’indomani ci chiesero di scegliere: tra la fucilazione o la Germania. Senz’altro scegliemmo la seconda. Così, con i sopravvissuti al treno bombardato, andammo in Germania, al Campo di Sigmaringen, dove saremmo restati prigionieri due anni”. Ma le peripezie non erano finite. Quasi alla fine della guerra, infatti, i tedeschi proposero ai prigionieri italiani di diventare soldati del Reich, e salvare così l’onta del tradimento di Badoglio. Lo stesso doveva fare don Francesco. Ma, arrivato il giorno del giuramento a Hentingen, cittadina presso il campo di Sigmaringen, davanti al monumento eretto per la gloria delle imprese militari tedesche, gli italiani si rifiutarono di giurare. Ricorda ancora Don Francesco: "Dopo il discorso d’occasione di un generale, occorreva alzare il braccio destro e la mano per il giuramento. Sentivo: Duri!, Duri! - la maggior parte dei mille e più soldati italiani erano alpini – e nessuno si prestò per il giuramento. Nessuno. Allora il generale scattò dall’ira. Il colpevole, secondo loro, ero stato io. Tre soldati mi portarono davanti al generale che mi domandò: "Perché gli italiani non hanno
giurato? Certo è stato per sua propaganda. C’è il rischio sicuro della fucilazione". (Ed era la terza condanna a morte). Poi però la faccenda si poté acclarare e ritornai indenne al reparto da dove tutti noi italiani potemmo evadere all’avvicinarsi degli Alleati". Don Francesco D’Angelo scrisse le sue testimonianze nel febbraio 1994, all’Istituto “Darmon” ai Camaldoli di Napoli dove si era trasferito ormai anziano, dopo una trentina d’anni trascorsi come insegnante all’ex Istituto “Figli d’Italia” di Cassino. Di lì a poco, il 22 aprile dello stesso anno, nello stesso istituto di Napoli, morì, lasciando pochi ricordi nascosti tra le sue carte che la Famiglia dei Discepoli ha recentemente pubblicato. Una strada o una lapide sulla sua casa paterna, forse farebbe rivivere oltre il giorno della memoria, la sua testimonianza di povero cappellano sparanisano deportato in Germania, ormai del tutto dimenticata.

Paolo Mesolella
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 5 Maggio)