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"Maestà, le regalo il Sud"

 
Il documento che Garibaldi consegnò nelle mani del re Vittorio Emanuele II
 

Il foglio è pesante, ingiallito, piegato in quattro, sporco sul retro: per dieci giorni, fino all'incontro di Teano del 26 ottobre, il Generale l'ha tenuto in tasca. È datato: “Caserta, 15 ottobre 1860”. La scrittura è volutamente chiara, Garibaldi sapeva l'importanza del documento. Con esso il Dittatore avrebbe consegnato il Meridione d'Italia nelle mani del re Vittorio Emanuele II.
“Io il dittatore, ci aveva scritto, decreto: le Due Sicilie che al sangue italiano devono il loro riscatto e che mi elessero liberamente a dittatore, fanno parte integrante dell'Italia una e indivisibile, con suo Re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti”. E poi conclude: “Io depongo nelle mani del Re la dittatura conferitami dalla Nazione”.
È il foglio che Garibaldi consegnò a Teano, sul ponte di San Cataldo (a circa 200 metri dalla chiesa di Borgonuovo), nelle mani di Vittorio Emanuele II. Non solo parole quindi (o almeno, non solo quelle), furono dette durante lo storico incontro, perché Garibaldi affidò ad un documento scritto, l'importante regalo e la nascita stessa dell'Unità d'Italia. Il documento fu donato nel febbraio del 1993 allo Stato italiano dagli eredi del re Umberto II ed è fondamentale per capire alcune cose sul grande Generale. Con esso infatti il dittatore affida ai Savoia il Meridione d'Italia, ma anche il suo pensiero.
Poche cose (espresse con i soliti errori grammaticali), ma precise; le stesse che indicherà ben più chiaramente nella lettera del 5 giugno 1881 inviata al Re Umberto I. “Due, scriverà, sono le necessità urgenti. Primo, sostituire all'esercito permanente di dugento milla soldati, l'esercito nazione con oltre due milioni di militi; secondo, sanare la nazione e particolarmente l'esercito dal morbo prete, nemico dell'Italia... stabiliti questi due principii, le invasioni dei nostri vicini e prepotenti nemici diventano impossibili”. Che Garibaldi fosse un acerrimo nemico del clero e del papato, già si sapeva, ma leggere le sue richieste al Re nei confronti di chi non collabora è una scoperta: “Ho veduto, scrive, nella mia ritirata da Roma del '49 in certi paesi italiani invasi dagli austriaci gli abitanti uscire ad incontrarli, guidati dai sindaci e dai preti col crocifisso alla mano ed acclamarli. Noi contemplavamo tali sozzure dall'alto dei monti ov'erimo obbligati di tenersi di quel bel mobile che siede in Vaticano”. E poi, il consiglio: “Dovrebbe essere appiccato, non meritando un'oncia di piombo, ogni sindaco che non si ritirasse verso il nostro esercito, conducendo uomini, famiglie, oggetti che potessero giovare al nemico; e far lo stesso a chiunque non negasse acqua o altro ad un invasore, cioè ad un assassino”.

Paolo Mesolella
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 10 Ottobre)