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Il Re Vittorio Emanuele a Teano, da Palazzo Caracciolo

alla Cattedrale, tra le acclamazioni dei teanesi
 

“Vi scrivo da Teano, città arcivescovile, antichissima; città greca e posta su una collina... Il re nostro Vittorio Emanuele dorme a poca distanza dal luogo ove scrivo io, in un palazzo, che da un lato prospetta sulla cattedrale e dall'altro sulla rampa che dalla porta della città scende.... Sono le 10 della sera”.
Comincia così una corrispondenza del 27 ottobre1860 che vide la luce sulla “Gazzetta di Milano” il 1 novembre 1860. Essa, come l'altra del 3 novembre, è priva di titolo, siglata C e preceduta dall'indicazione “Corrispondenza della Gazzetta”. Dopo la corrispondenza ricordata nel precedente numero del Sidicino e che
raccontava in maniera dettagliata il passaggio e la sosta dell'eroe dei due mondi a Calvi, mi sembra interessante ricordare altre due corrispondenze che riguardano Teano e che descrivono la festosa accoglienza del re Vittorio Emanuele in paese, sotto gli occhi di un invadente cronista. “Tutte le case, continua il corrispondente, sono occupate dagli ufficiali venuti col re; a me, in onta al gran mandare e rimandare del sindaco in tutti i casamenti, ove possa sperarsi, non foss'altro, una poltona al coperto per riposare, toccherà o di bivaccare, o di restare per grazia, in questo misero caffè. Intanto è da questo caffé di Teano che vi scrivo...”. A questo punto la corrispondenza del 1 novembre continua ricordando l'incontro di Garibaldi con i siciliani a Calvi, nella dogana borbonica di cui già abbiamo parlato. Poi, però, il corrispondente, stanco, si ripropone di ricordare in seguito la sua visita al re nel palazzo del principe Santagapito (Caracciolo). E lo farà con una seconda corrispondenza, apparsa sulla “Gazzetta di Milano” il 3 novembre 1860. “A Calvi, scrive, era tardi... Ripigliammo la via colle nostre vetture. Passiamo già tra scolte piemontesi, segno che ci avvicinavamo là dove erano intorno non più garibaldini ma truppe regolari. E così siamo giunti qui (a Teano ndr). Cosa bizzarra; ci avvicinammo al palazzo dove era alloggiato il re. Il portone di strada era chiuso, ma non una sentinella, non un corpo, o picchetto di guardia lì innanzi. Il re era lì ma dormiva senza custodia come un semplice privato. Le finestre erano tutte chiuse; non un lume traspariva. Nella casa e intorno regnava un silenzio profondo. Andammo dal sindaco; mentre eravamo da lui, nel piccolo pian terreno, in cui stava egli col suo segretario, giungevano i numerosi prigionieri fatti il dì innanzi dal re stesso vicino a Sessa. Il sindaco ci narrava che tredici battaglioni di bersaglieri borbonici erano stati contro il re, che da parte sua non ne aveva che due soltanto, e che pur così, il re li aveva sbaragliati e ne aveva fatti prigionieri una parte. Ci narrava poi le immanità che i Borbonici avevan prodigato su di loro; ci diceva che il generale Scotti, quello preso giorni fa prigioniero da Cialdini, a lui sindaco, rimostrante della povertà del paese e della impossibilità di sopperire alle richieste sue di foraggi, viveri, denaro, avevagli in quel suo gergo napolitano risposto, che la guerra da loro si faceva con due cose: distruzione e requisizione; e che questo era il loro motto d'ordine... .Saria lungo a raccontarvi le infamie che il sindaco ed il suo segretario narravano sopra ciò; la distruzione e la requisizione sono state dai Borbonici effettuate in questi dintorni in enormità inimmaginabili. Lasciammo il sindaco dopo che i suoi sforzi per darci un giaciglio od almeno un tetto riuscirono vani, e riparammo dentro un caffé che si era fatto aprire appositamente. Ivi, dopo preso un caffé, vi scrissi la lettera che ho spedita jeri e, quando fummo stanchi io e gli altri, non potemmo che adagiarci nelle nostre vetture. Non tutti ci entrammo, ma soltanto in due, e dovemmo stare all'area aperta, al freddo della notte. Avevamo dirimpetto il palazzo che per quella notte era la reggia di Vittorio Emanuele; da tutti i lati forgoni e diligenze e vetture, appartenenti al seguito del re; e dietro a noi, la cattedrale. Verso le tre e mezzo cominciarono a sopravvenire cavalli e andar via forgoni, e più tardi alcune delle vetture sparse lì intorno: questo movimento durò fino alle sei. Era un gridare, uno scrosciare di sognagli dei cavalli, uno strepito di carri che partivano. E intanto il re dormiva ancora; ma verso le 5 si era aperto il portone, e di là, al lume di due fievoli lucerne che rischiaravano l'atrio della scala, andava e veniva gente. Alle 6 la chiesa si apriva; i preti avevano in mezzo alla grande cappella preparato pel re un “faldistorio”, come si trattasse di un prelato, di un arcivescovo. Il cappellano del re, sopravvenendo, disse che non era caso, trattandosi del re, di “faldistorio”, ma di un “genuflessorio” semplice. Verso le 6 e mezzo già l'altare era illuminato come a festa.
Montati al palazzo ove era il re, dicemmo del perché eravamo venuti... Nella sala, che precedeva altri due salotti, ove poi vedemmo il re, ci incontrammo nel signor Lauria e in Gian Andrea Romeo, che era lì con suo figlio Pietro; questi, come deputati di Reggio, Lauria e Gian Andrea come deputati del Consiglio di Stato di Napoli. Erano in abito nero e in guanti gialli; la nostra toilette era semplicemente da viandanti. Essi furono ricevuti i primi, e stettero col re gran pezzo. Mentre veniva la volta nostra, il medico Tommasi, professore a Pavia, e l'ingegnere de Vincenti ci vennero a salutare...
Vedemmo in quella grande sala, dietro a paraventi, tavolini che avevano dovuto servire ai segretari per scrivere dispacci; vedemmo la padrona di casa, una bella e giovane signora, a braccio ora di un generale ora di un altro, e infine il marito di lei, un vecchio, con la croce di S. Maurizio e Lazzaro attaccata al petto, girava intorno per mettere diligentemente in assetto tutto. Dovemmo comprendere che il re, per gratitudine del buono alloggio datogli, lo aveva poch'anzi decorato, e che la signora si accaparrava già la benignità de' generali... Finalmente venne per noi il momento solenne... In fondo a due stanze che traversammo, ci si scoprì ritto, con piglio ilare e sorridente il re. Noi dicemmo che, appartenendo a deputazioni di Sicilia che avrebbe avuto la bontà di ricevere più tardi ufficialmente, avevamo voluto correre a lui per potere tra i primi salutarlo personalmente re d'Italia. Il re parlò molto, molto bene...Disse che ciascun uomo ha una ragione di dovere verso la patria; che egli aveva da parte sua sentito questo dovere...
Io gli rammentai che, dieci anni fa, egli mi aveva detto francamente di queste sue intenzioni per l'Italia.
Il re con bel piglio, volgendosi a me, soggiunse: “E vedete, non ho cangiato!”. A questa parola che mi commosse profondamente, gli presentai la mia mano; il re me la strinse con viva commozione. “La cosa “ ei continuava a dire “è andata felicemente; ora siamo al compimento. Avrei voluto risparmiare il sangue de' soldati borbonici, perché è ben sangue italiano; e ne ho tentato tutti i mezzi (alludeva con ciò alle proposte fatte a' soldati di Capua per arrendersi). “Domani li attaccherò sul Garigliano; vi saranno delle morti, il che mi dispiace profondamente, ma bisogna si faccia finita, e Capua e Gaeta siano presto prese. Il governo che hanno sofferto i popoli dell'Italia meridionale è stato orribile...Io ne ho raccolto i documenti e li presenterò all'Europa. Cose veramente inimmaginabili. Ho trovato in un luogo confitte a dieci pali dieci teste: ho trovato tra altre carte, l'ufficio di un capitano che domandava 60 ducati, 250 franchi, per tre teste che ha tagliato di tre galantuomini. “. E disse altro che non ricordo... Il re ci aveva trattenuti venti minuti. Parve a noi di accomiatarci.... Scendemmo: era l'ora ch'egli doveva andare in chiesa. L'organo suonava; dalla gran porta tutta schiusa, vedevamo illuminato a festa il grande altare. La popolazione era affollata sulla via, per la quale doveva passare il re. Di un tratto echeggiavano da tutti i lati grida di “evviva Vittorio Emanuele, evviva il re d'Italia”. E il re d'Italia, a gran passi, scuotendo il suo berretto in atto di saluti replicati al popolo plaudente, e con gli occhi esultanti, con viso da leone, passa, entra in chiesa; poco dopo esce, e acclamazioni nuove seguono. Quando è fuori dalla porta della città, gli è menato inanzi il cavallo; egli monta, le grida raddoppiano, così parte, discende la rampa che va giù alla pianura, seguito dai generali, dallo stato maggiore, da una compagnia di ussari, e da altra di gendarmeria a cavallo; così prende la via di Sessa”. Una corrispondenza, quindi, che ci ricorda la permanenza del re a Teano, tra le acclamazioni della popolazione e la scenografica visita alla cattedrale di S. Paride con l'altare illuminato a festa ed il faldistorio di un arcivescovo. Un re che si sente in dovere di lottare per la patria e che, a suo dire, avrebbe voluto risparmiare il sangue de' soldati borbonici, perché anche quello era sangue italiano.

Paolo Mesolella
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 9 Settembre)

 
P.s.: A Teano, nell'androne e all'esterno di Palazzo Caracciolo in Piazza Duomo, due lapidi ricordano che lì il nuovo re fu ospitato fino al 27 ottobre 1860.