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Sparanise. Nel campo di concentramento tedesco

vidi uccidere due persone in fuga
 
La testimonianza di Pietro Scotto Di Vetta, di Bacoli (NA)
 
 

Pietro Scotto Di Vetta è un uomo di 86 anni (nato a Bacoli nel 1926) scampato miracolosamente alla morte nel campo di Concentramento di Sparanise, dove il 25 settembre 1943, vide morire sotto i suoi occhi due uomini in fuga, uccisi dai tedeschi. La sua testimonianza, insieme a quelle rilasciate da Ciro Cirillo e da Giovanni Desiderio di Castellammare di Stabia, conferma se ce ne fosse ancora bisogno, che quello di Sparanise era un Campo di concentramento tedesco dove si poteva essere uccisi e si moriva. Dove, in caso di fuga, si rischiava seriamente la vita, come nel caso di cui è stato testimone oculare Pietro, che vide due persone uccise dalle guardie tedesche perché avevano cercato di fuggire. Pietro Scotto Di Vetta detto “Mario”, era stato sequestrato dai tedeschi a Bagnoli, insieme ad altri civili; poi era stato trasportato con un camion nel campo di concentramento di Sparanise, dove è stato anche testimone oculare dell'eccidio di due civili in fuga.
“Quella mattina, ricorda, era il 25 settembre 1943: mia madre ed io ci recammo a casa di “Rusina”, una vicina di casa, e mia madre le chiese se era vero che dovevamo sgomberare. Rusina, piangendo, disse che era vero ma mia madre, per essere sicura, si rivolse ad un uomo per chiedere conferma.
Quell'uomo rispose che era vero e che i tedeschi avevano affisso dei manifesti che ordinavano alla popolazione di sgomberare il paese perché dovevano far saltare le polveriere di Miseno, di Miliscola, il ponte di Casevecchie e molte strade. Allora mia madre cominciò a piangere e tornammo a casa. Abitavamo “rint' i Trebbitiell'”. Mia madre preparò della roba, chiamò me e le mie sorelle Filomena e Anna, e tutti insieme andammo a Baia per prendere il treno della Cumana per arrivare a Fuorigrotta e poi a Pianura, a piedi. Salimmo sul treno, ma quando arrivammo a Bagnoli, il treno fu fermato da molti tedeschi che avevano i fucili pronti per sparare. Fecero scendere tutti gli uomini e pure me. Mia madre, piangendo, diceva che io non avevo ancora 18 anni e perciò non potevano prendermi; mostrò loro anche la mia tessera dove si vedeva che avevo 17 anni. Ma i tedeschi la minacciarono con i fucili, gridando “Raus, Raus” e poi spingendomi con la canna del fucile, mi portarono vicino a un camion dove c'erano altri uomini e mi fecero salire. Mia madre arrivò piangendo fino al camion e urlava che ero piccolo, ma i tedeschi non rispondevano.
Allora un uomo che stava sul camion cercò di calmarla e le promise che mi avrebbe aiutato lui. Il camion partì e ci portò fino al Collegio “Costanzo Ciano” di Bagnoli (dove oggi si trova la base NATO), qui ci fecero scendere e ci portarono in un tunnel sotterraneo dove c'erano prigionieri stranieri. Mi pare che fossero neozelandesi. Più tardi ci fecero salire di nuovo su un camion e verso sera arrivammo a Sparanise in un campo grandissimo dove non c'era niente se non la recinzione. Per dormire raccogliemmo dei pezzi di legno che si trovavano sul posto e costruimmo dei ripari che assomigliavano alle cucce dei cani. Sono rimasto nel campo di Sparanise una decina di giorni: mangiavamo pochissimo e la fame ci faceva stare male. Quei disgraziati dei tedeschi per divertirsi ci buttavano dei pezzi di pane e ridevano quando litigavamo per arrivare primi al cibo, ma quando eravamo vicini al pane, loro si avvicinavano e ci allontanavano colpendoci con il calcio dei fucili.
Poi, dopo una decina di giorni, una guardia austriaca, forse impietosita dal fatto che ero un ragazzo, fece scappare me ed altri due dal campo. Noi incominciammo a scappare, ma altre guardie ci videro e spararono. Gli altri due furono colpiti perché, ad un certo punto, quando mi fermai, ero solo. Mi riposai un poco, e quando mi ripresi, mi ricordai che durante la corsa avevo visto i miei compagni cadere colpiti dalle fucilate. Dopo un giorno di cammino, riuscii ad arrivare a Pianura dove ritrovai mia madre e le mie sorelle: avevo i capelli bianchi perché erano pieni di uova di pidocchi. Nessun barbiere volle tagliarmi i capelli e allora lo fece mia sorella Filomena. Dopo, poiché avevo i capelli a scaletta, volevo coprirli per la vergogna. Però non avevo un cappello e allora, presi una calza nera di mia madre e me la misi in testa come fosse un cappello“.

La testimonianza è stata acquisita il 25 maggio 2012 dal sig. Samuele Guardascione di Bacoli che me l'ha cortesemente inviata.

Paolo Mesolella
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 7 Luglio)