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L'arte di essere fragili

 

Spesso si pensa alla fragilità come a un difetto da nascondere e possibilmente da correggere. I modelli di riferimento che ci vengono continuamente imposti sono infatti basati su una presunta perfezione da raggiungere a tutti i livelli: dall'aspetto fisico, all'abbigliamento, al ruolo sociale. Ma la perfezione non esiste e dal confronto con questo ideale irraggiungibile si esce inevitabilmente perdenti, con un senso di frustrazione che in persone particolarmente sensibili e vulnerabili, può addirittura sfociare in angoscia esistenziale.
Per fortuna, scrittori, poeti e maestri ci vengono incontro, accendendo di stelle il nostro cammino. È il caso di Alessandro D'Avenia, autore di vari libri, tra cui “L'arte di essere fragili”. Lo scrittore immagina di scrivere delle lettere al poeta preferito, Giacomo Leopardi, ringraziandolo per tutti gli insegnamenti tratti dalle sue splendide poesie, che lui stesso, docente di lettere, cerca di trasmettere ai propri allievi.
Senza maestri saremmo sbandati e infelici. Beato chi ha avuto o ha un maestro che lo protegga, lo riconosca, lo corregga. E beato chi può, a sua volta, trasmettere il sapere a nuove generazioni, tenendo presente che cultura e vita rappresentano un binomio inscindibile. Infatti non c'è vera cultura se non c'è autentico rispetto per la vita umana, in tutte le sue sfumature.
Il termine “fragile” deriva dal latino “frangere”, che significa rompere. La vita, bene fragile per eccellenza, è soggetta infatti a incrinature, lesioni, ferite che talvolta impiegano molto tempo prima di rimarginarsi, lasciando spesso cicatrici indelebili. Ma è proprio questa fragilità che ne accresce la preziosità e il mistero. Riconoscersi creature fragili, e quindi bisognose di aiuto, significa acquisire la consapevolezza e la bellezza del proprio esserci. Al contrario, nascondere la propria fragilità equivale ad offuscare la parte forse più autentica di noi, quella che ci avvicina di più agli altri, ci rende più amabili, più simili. Una persona troppo sicura di sé è più distante e risulta in fondo poco credibile, perché ciascuno di noi in cuor suo sa quante paure, dubbi, incertezze attraversano l'anima, di tutti e di ciascuno.
A distanza di anni, ho ritrovato una lettera che anch'io, all'età di tredici anni, dedicai al poeta dell'infinito. “Amo le tue poesie – gli confidai – e se tu le hai scritte solo per esternare il tuo dolore, per me sono molto di più. Sono una guida nella mia adolescenza; infatti ho imparato da esse che bisogna accettare la vita di tutti i giorni con serenità, tenendo sempre viva la speranza in un futuro migliore”.
È stato bello ritrovare tra le pagine di questo libro, letto durante le sere più fredde e scoppiettanti di gennaio, l'emozione delle poesie imparate a memoria, l'ansia di non ricordarle durante l'interrogazione, e la voce rassicurante del maestro che evocava, rendendoli più reali della realtà stessa, l'infinito oltre la siepe o il silenzio stellato del pastore errante... Miracoli che solo la poesia e la letteratura possono compiere, traendo da un dolore ordinario una ricchezza straordinaria.
Nasce allora spontanea la gratitudine verso il poeta che con i suoi canti ha inondato di luce la pagina opaca della sua vita. E nasce spontanea la mia gratitudine verso tutti i maestri, di ieri e di oggi, profeti dell'anima, che mi hanno insegnato che il deserto della fragilità può trasformarsi in terra feconda.

Carmen Melese
(da Il Sidicino - Anno XIV 2017 - n. 1 Gennaio)

 
Foto di Giancarlo Di Petrillo