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Indice Gaetano Mastrostefano
 
 

I quadri di storia di Luigi Toro esposti

nel Municipio di Sessa Aurunca (II parte)
 
(L’ “Agostino Nifo alla corte di Carlo V” e il “Taddeo da Sessa al Concilio di Lione”: la controversia)
 
LUIGI TORO - Taddeo da Sessa al Concilio di Lione (1893), olio su tela, 400 x 600 cm (Municipio di Sessa Aurunca (CE))
 
Come evidenziato nella Prima Parte, non era stato facile per Luigi Toro districarsi nella delicata controversia alimentata da quella parte dei Consiglieri comunali contrari alla commissione per la dipintura dei due quadri di storia sui due illustri concittadini del passato, Agostino Nifo e Taddeo da Sessa. Di certo fu determinante la stima di cui godeva e l’appoggio dei Consiglieri vicini alle sue tendenze politiche, ma contarono anche le amicizie e alcune compiacenze trasversali. In fondo, larghe frange dell’Amministrazione sessana non erano contrarie a celebrare i due illustri concittadini con le opere d’arte di grande impatto realizzate da Toro che avrebbero conferito prestigio anche all’Ente committente oltre che all’esecutore. L’omaggio a famosi personaggi della storia medioevale e rinascimentale, che spesso s’identificava con quella delle tante realtà comunali in cui era suddivisa in quelle epoche la Penisola, era considerato un mezzo per accrescere la coscienza nazionale. Lo sostenevano le Istituzioni e i principali esponenti della cultura - da De Sanctis, a d’Azeglio, a Manzoni, a Mazzini e Gioberti - che propendevano per un’idea di un’arte utile nel conferire benefici alla collettività che aveva aperto una stagione alquanto ricca di committenze pubbliche per gli artisti che, attraverso i ‘quadri di storia’, propagandavano l’identità nazionale. In tale contesto, ognuno cercava di sfruttare i propri ambiti di popolarità e le conoscenze personali per procurarsele e realizzare i propri progetti artistici. Pertanto, anche Luigi Toro, oramai completamente calato nella sua missione artistica intrisa degli ideali legati ai valori risorgimentali di cui era stato partecipe, si era fatto appoggiare dall’Ente comunale sessano nell’attuazione del suo progetto nel campo dell’arte contando sulla sua popolarità di uomo e combattente generoso e integerrimo, oltre che come Consigliere eletto più volte nel consesso civico cittadino. Ma tutto ciò non era bastato ad assicurargli il benestare incondizionato da parte della totalità dei Consiglieri, generando l’aspra contrapposizione in seno al Consiglio comunale che, quantunque giustificato dalle effettive difficoltà finanziarie delle casse pubbliche, al pari di tanti altri Comuni italiani dell’epoca, celava in realtà ben altre tensioni. Il confronto politico in seno all’Amministrazione sessana, come in tante altre realtà municipali nazionali era, in quel particolare periodo, alquanto esasperato dalle tensioni degli sconvolgimenti politico-istituzionali postunitari che generarono aspre contrapposizioni tra le fazioni neoconservatrici e/o nostalgiche e le numerose formazioni politiche figlie dell’unificazione - da quelle di stampo liberale o laico/democratiche e progressiste o radicali più estremiste di derivazione ‘carbonara’ - inquinate da ‘trasformisti’ sempre pronti a manipolazioni politico-affaristiche. Inoltre, non mancavano nuovi sodalizi segreti inclini alle dottrine massoniche che cospiravano segretamente. Era questo il torbido clima in cui Toro, che oramai era lontano da Sessa e dall’agone politico locale, si trovò, forse alquanto ingenuamente, coinvolto finendo sotto il tiro di coloro che cercavano di trarre vantaggi politici o personali nel mettere sotto accusa l’ex garibaldino che incarnava ancora gli ideali e i valori di matrice mazziniana.
La chiusura della vertenza con l’Amministrazione comunale di Sessa, se aveva comunque consentito al pittore aurunco di salvare la commissione, l’aveva alquanto prostrato oltre che moralmente anche finanziariamente per l’eccessivo allungamento dei tempi di pagamento dei quadri che dilatò i tempi di consegna della seconda opera commissionatagli compromettendo, di fatto, il suo progetto artistico. Infatti, il saldo dell’Agostino Nifo era slittato al 1882 e l’anno dopo - come proposto dallo stesso Toro - ebbe inizio il pagamento rateale del Taddeo da Sessa che si protrasse fino al 1892. Probabilmente il pittore, pur di salvare il suo progetto, non aveva ben valutato le reali conseguenze sulle sue finanze del patteggiamento intercorso. Peraltro, non poteva non venire incontro alle istanze del Comune essendo anche ben consapevole di aver tenuto celati alcuni aspetti della vicenda che se fossero venuti alla luce avrebbero compromesso la sua onorabilità (alla fine, Toro incassò un totale di 70.000 lire dell’epoca per i due quadri, equivalenti all’incirca a 150.000 Euro attuali).
LUIGI TORO - Taddeo da Sessa al Concilio di Lione (1893) - particolare
 
La prima versione del Nifo acquistato dai Reali, che era stato sistemato in una sala di rappresentanza della Reggia romana del Quirinale, si trovò al centro di una nuova querelle in occasione dell’Esposizione Nazionale di Belle Arti organizzata a Napoli nel 1877. Invitato a parteciparvi, l’artista intendeva sfruttare il favorevole momento artistico che stata attraversando esponendovi il suo primo dipinto di storia, ma il Ministro Visone si era mostrato in prima istanza non favorevole ad accordare il permesso, poiché, “il quadro non si poteva togliere dal suo posto senza sconcio”. Quasi certamente un intervento ‘dall’alto’ sbloccò la situazione e Visone, alla fine, concesse il proprio benestare. Toro stesso si occupò di prelevare il quadro dal Quirinale e di trasportarlo a Napoli dove fu collocato nella Sala VIII dell’Istituto Tecnico in Via Tarsia sede dell’Esposizione inaugurata in pompa magna l’8 aprile di quel 1877 alla presenza di Vittorio Emanuele II e della Principessa Margherita. Come riportato dal quotidiano napoletano IL PUNGOLO di quel giorno, Toro omaggiò personalmente i Reali insieme agli altri noti artisti presenti, tra cui, Morelli, Palizzi, Mancini, Lojacono e Altamura e altri. Una testimonianza che conferma la notorietà e il rispetto di cui godeva in quel momento.
La manifestazione napoletana ebbe un buon successo di critica e di pubblico per la qualità dei dipinti e degli espositori, tra cui, alcuni emeriti pittori stranieri. La ‘pittura di storia’ era ben rappresentata anche se era già evidente l’inizio di un suo profondo processo involutivo, come segnalarono alcuni critici presenti che pure avevano favorevolmente recensito i pregi artistici del quadro di Toro e meno il soggetto. Tra questi, Michele Uda, più documentato degli altri sul filosofo sessano: “Pare che a Carlo V questa burbanza arroganza sia piaciuta assai, se Agostino Nifo, colmo di onori, continuò a pubblicare i suoi volumi in latino, e a far disperare sua moglie. La scena singolarissima del filosofo e dell’imperatore seduti uno di faccia all’altro come due compari, in mezzo allo stupore dei cortigiani, è il soggetto del quadro. Agostino Nifo è là; nel centro della sala, comodamente adagiato, le mani sui bracciuoli, della sua scranna, e gli occhi raggianti d’un sorriso, nel quale è arguzia fine, grande intelligenza e presunzione di sé anche maggiore. Carlo V ha un non so che nel viso, tra l’alterigia e il dispetto, traducentesi in un guizzo di muscoli che arriccia un tantino i peli fulvi della sua barba. C’è negli occhi suoi la domanda, e in quelli del Nifo la risposta. I signori della corte, alcuni guardano il filosofo sessano, altri s’ammiccano, esprimendo meraviglia, sussiego nobilesco, indignazione repressa, scherno. Ma la testa di Nifo è quella che attrae maggiormente l’attenzione; in quel suo faccione sbarbato a guance flosce, nell’ampiezza della fronte e negli occhi lustri, s’indovina alla prima l’uomo dotto, studioso, vano, presuntuoso, e anche donnaiolo. La tela ha molti pregi particolari - raso, velluto, mobili antichi - è riccamente colorita, forse troppo, con vivezza lucida d’inverniciatura. l’insieme è freddo di tutta la freddezza della curiosità storica che raffigura, e alla quale i tempi mutati darebbero oggi nome di facezia presuntuosa e villana.
Dopo la conclusione della mostra, il Nifo fu collocate nelle collezioni della Reggia di Capodimonte a Napoli. Toro continuò la sua attività artistica a Roma dedicandosi, tra l’altro, alla realizzazione di quel “soggetto storico non comunale ma italiano” da tempo annunciato e che si era concretizzato nella celebrazione di Pilade Bronzetti morto a Castelmorrone durante gli scontri risorgimentali sul Volturno. Un’opera di grande impatto e formato (quattro metri per sei), ricco di contenuti paesaggistici e figurativi, che lo impegnò a lungo essendo stato ultimato solo nel 1885, dopo la grave perdita del fratello Francesco avvenuta nel 1883, che lo privò non solo di un importante affetto familiare, ma anche di un fidato riferimento per la gestione dei suoi beni agrari di Lauro dai quali traeva dei cospicui redditi che comunque erano necessari per il suo sostentamento, visti gli ambiziosi progetti artistici che cercava di portare avanti nonostante le difficoltà economiche.
Il dipinto, accolto da favorevoli commenti, tra cui quello di Gabriele D’Annunzio che lo recensì dalle pagine de LA TRIBUNA di Roma del 10 luglio 1885 rimase, però, invenduto non essendosi concluso l’acquisto da parte del Comune di Mantova dove, ironia della sorte, non è stato possibile collocarlo neanche ai giorni nostri dopo l’avvenuto restauro per i problemi organizzativi insorti specialmente per le enormi dimensioni del dipinto dopo che ne era stata annunciata la collocazione in quella città (rif. La Voce di Mantova del 15.04.2014 e del 25.08.2014).

La realizzazione del Taddeo da Sessa al Concilio di Lione
La mancata vendita di questo dipinto accentuò il declino finanziario del pittore che fu costretto a far ipotecare al Banco di Napoli le sue pur cospicue proprietà agrarie di Lauro. Assalito dalla delusione e dallo scoramento, s’isolò alquanto dalla ribalta artistica, concentrandosi prevalentemente sulla realizzazione del dipinto su Taddeo da Sessa che, rispondendo anche ai solleciti dell’Amministrazione Comunale sessana, presentò nel 1893 alla III Esposizione Nazionale di Belle Arti inaugurata a Roma il 20 aprile di quell’anno.
L’enorme dipinto su Taddeo da Sessa, che aveva dimensioni pressoché doppie del Nifo e uguali al Bronzetti, superò la difficile selezione in un contesto di artisti di grande prestigio (la commissione deputata all’accettazione delle opere ne scartò circa duecentocinquanta), tra cui, molti giovani talenti emergenti, tra cui, i napoletani Vincenzo Irolli e Vincenzo Caprile che fu premiato con la medaglia d’oro a riprova che l’arte figurativa aveva imboccato nuove direzioni. Il pittore aurunco, invece, perseguiva ancora il suo datato progetto artistico nel campo della ‘pittura di storia’ che aveva oramai perso la sua funzione.
Il Taddeo da Sessa occupava tutta una parete della sala espositiva e, pur destando una certa impressione per la sua imponenza, non ebbe un favorevole consenso critico, sia - ancora una volta - per la poca notorietà dell’episodio narrato, sia per le oramai lontane istanze del messaggio patriottico sotteso dalla scena pittorica che rievocava il suo illustre concittadino Taddeo de Matricio fedelissimo di Federico II, antesignano delle ideologie unitarie e oppositore del potere temporale della Chiesa. Per questi motivi, nonostante la precisa narrazione pittorica dell’episodio storico inscenato e la cura dei particolari (costumi, apparati scenici, sfondi, ecc.), l’artista aurunco non conseguì gli obiettivi sperati. Probabilmente era consapevole che la ‘pittura di storia’ era oramai estranea al movimento artistico di quei tempi, ma doveva portare a termine il dipinto per non rimettere ancora una volta in discussione la commissione ricevuta dal Comune di Sessa. Pertanto, lo completò stancamente, per dovere e senza l’entusiasmo dei giorni migliori. Ciò non compromette, comunque, l’originalità artistica e all’idea che sovraintende alla scena messa in piedi da Toro che trasmette tutta la solennità del momento in cui Papa Innocenzo IV scomunica Federico II nella fredda e cupa atmosfera della chiesa che ospita il Concilio di Lione, come evidenzia Giuseppe Tommasino nell’Appendice a Il duomo di Sessa Aurunca (1953): “dalla nobile figura del Taddeo traluce, attraverso il velo corporeo, un’anima che nel lampo degli occhi, nel corrugamento della fronte, nel fremito che pervade l’intera persona, nel torcimento dello sguardo, nel gesto del braccio rigidamente disteso ed a viva forza contenuto, par che gridi tutto il suo rabbioso sdegno per l’ingiusta condanna inflitta al suo Signore. [...] Tutti gli elementi della espressione risultano più che naturali; ed il rappresentare il momento in cui la passione, frenata e dissimulata in fondo al cuore, erompa improvvisa come il fuoco che esplode dalle visceri di un vulcano, è abilità non comune. Un’aria di accorata solennità regna nel sacro tempio [...]; le varie posizioni dei singoli corpi e dei singoli gesti, l’analisi delle singole espressioni (attenzione, sorpresa, stupore, preghiera compiacenza, compassione orgoglio , scherno , sdegno); lo studio di ambiente, il panneggiamento, la luce sotto la cui diretta azione i colori or si attenuano fino a sfumare in gradite penombre or s’intensificano, tutti questi elementi artistici danno alla tela una solennità austera e magniloquente, frutto di una pur sempre notevole originalità”.

Conclusa l’esposizione romana, l’imponente tela venne consegnata al Comune di Sessa Aurunca che si accollò le spese del trasporto ferroviario e della cornice, collocandolo nella Sala Consiliare dove fa ancora bella mostra insieme alla tela dedicata ad Agostino Nifo.

(fine)

(N.B. - Le frasi e le notizie virgolettate nel saggio sono tratte dai verbali delle sedute dei Consigli Comunali, da cronache giornalistiche del tempo o da altre fonti documentate nella monografia citata).

 

Sala del Consiglio Comunale di Sessa Aurunca, detta 'Salone dei Quadri
(Cartolina anni '30 - Ed. E. Varone e F.llo)
 

Il “Taddeo da Sessa al Concilio di Lione”

(Scheda di lettura del dipinto)

Fedele segretario di Federico II insieme al capuano Pier delle Vigne, Taddeo de Matricio, detto ‘da Sessa’ per le sue origini (1190 o 1200-1248), fu giudice della Magna Curia imperiale e si distinse nella gestione degli affari interni riguardanti principalmente gli aspetti legali e giuridici di governo, oltre che come ambasciatore in numerose missioni presso la Santa Sede per redimere le controversie insorte con l’Imperatore svevo sul quale pendeva la scomunica pronunciata nel 1240 da Papa Gregorio IX. La lunga contesa tra il Papato e Federico II, sovrano illuminato di vasta cultura che svolse un inflessibile lavoro di riorganizzazione amministrativa e legislativa, si trascinò anche dopo l’elezione di Innocenzo IV, poiché, l’Imperatore svevo continuava a perseguire nel suo intento di riunire sotto di sé tutto il territorio italiano annettendo anche le zone lombarde fedeli al Papa. Costui, che nel timore che Federico II volesse farlo prigioniero assalendo Roma, si rifugiò dapprima a Genova e poi Lione, dove indisse un Concilio per confermargli la scomunica. Ed è questo il momento fulcro del dipinto che Luigi Toro dedica al suo insigne concittadino che fu, come affermò lo stesso pittore, “tra i primi iniziatori dell’Unità Italiana” per l’incondizionata fedeltà nei confronti di Federico II.

Nell’atmosfera grave e tenebrosa della chiesa illuminata solamente dai fiochi bagliori delle candele, tutti i convenuti - tra cui, spicca a sinistra del Papa e a capo chino il Re Baldovino II di Bisanzio - appaiono raggelati in quel solenne e tragico momento quando il Pontefice legge i capi di accusa nei confronti dell’Imperatore ritenuto colpevole di spergiuro, di sacrilegio e di eresia; in primo piano, vestito di nero, Taddeo da Sessa viene trattenuto a stento da un chierico mentre lancia un’occhiata di sdegno in direzione del Papa appena dopo aver scagliato a terra una pergamena su cui è chino un altro chierico intento a raccoglierla dopo la sua lunga e appassionata difesa dell’Imperatore: «Poiché è chiara la volontà di emettere una sentenza definitiva prima di sapere con precisione le accuse, io Taddeo da Sessa, Giudice della Magna Curia imperiale, nominato ad hoc procuratore del mio Signore con poteri speciali, dico che nessuna sentenza debba essere emessa contro l’Imperatore in questo consesso; ma se alcuna sentenza si avrà (cosa che escludo del tutto, perché essa sarebbe stata data senza rispetto delle forme giuridiche) appello da parte del mio Signore contro questa sentenza al futuro Pontefice Romano e all’Universale Concilio di Re, di Principi e Prelati non essendo il presente un Concilio Universale».
La storia tramanda che di lì a poco le candele spente al suolo avrebbero stabilito la scomunica dell’Imperatore e che nella chiesa, quasi completamente al buio, si sarebbe levato il triste canto del Te Deum.

L’orchestrazione compositiva e pittorica del dipinto è alquanto cupa e risente delle sue enormi dimensioni che penalizzano la profondità prospettica se osservato a distanza ravvicinata e con luce non appropriata. Inoltre, si nota una certa approssimazione e stanchezza nella cura dei particolari e dei personaggi rispetto al Nifo, dovuta probabilmente alla fretta nel doverlo ultimare per non indispettire ulteriormente l’Amministrazione Comunale spazientita dai continui rinvii della consegna. Ciò non toglie, comunque, meriti all’originalità artistica e all’idea che sovraintende alla scena messa in piedi da Toro, di cui sono stati documentati nella monografia del 2012 due bozzetti, uno conservato da privati e un altro nella collezione della Provincia di Napoli che evidenziano una chiesa concepita sul modello della Cattedrale romanica di Sessa. Un’altra versione presente nel Museo istituito da Pietro Fedele nella Torre di Pandolfo Capodiferro, fu trafugata nel 1943 dalle truppe tedesche in ritirata che, tra l’altro, distrussero la Torre situata nei pressi della foce del fiume Garigliano, sponda Comune di Sessa Aurunca.

Gaetano Mastrostefano
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 5 Maggio)