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Luigi Toro, pittore e patriota dell'800

 
La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone, olio su tela, 1885 (cm 400x600) (dalla cartolina emessa nel 1961in occasione della MOSTRA DEL RISORGIMENTO IN TERRA DI LAVORO nella Reggia di Caserta)
La copertina del libro
Agostino Nifo alla corte di Carlo V - olio su tela, 1876 (cm 285x396) - Sala Consiliare del Comune di Sessa Aurunca
 

La città di Teano rappresenta un importante “luogo della memoria” risorgimentale. Nell'incontro del 26 ottobre 1860 Garibaldi consegnò, di fatto, a Vittorio Emanuele II le Province meridionali e decretò, nel contempo, lo scioglimento dell'Esercito Meridionale nato in Sicilia dall'aggregazione dei primi “Mille” garibaldini con i volontari successivamente accorsi da tutta la Penisola a sostenere il Generale. Tra i garibaldini delusi dall'intervento dell'esercito sardo-piemontese che li aveva esclusi dalla fase finale dall'impresa unificatrice, c'era Luigi Toro, pittore e patriota nato a Lauro di Sessa Aurunca nel 1835 che, giunto in Sicilia nel mese di luglio del 1860 con la spedizione di Enrico Cosenz, era entrato a far parte del ristretto corpo delle Guide, in cui confluivano gli uomini più coraggiosi e temerari presenti nelle file garibaldine.
La partecipazione attiva agli eventi risorgimentali e alla successiva lotta al brigantaggio nelle contrade aurunche come Maggiore della Guardia Nazionale, gli conferirono glorie e popolarità immediata. “Non vi era una impresa nella quale i briganti non lo temessero – racconta Costantino Abbatecola nella sua Guida Critica della Grande Esposizione Nazionale del 1877 (Napoli, 1877) –, poiché il più delle volte solo a cavallo nel cuore della notte accorreva. In quel tempo Toro si esercitava al tiro con la pistola ed era giunto a tale perfezione che metteva cento colpi l'uno dopo l'altro nel medesimo bersaglio. Questa qualità del Toro accoppiata ad una grande influenza morale che esercitava sul mandamento di Sessa conosciuta dai briganti bastò a salvare il paese dalle loro oppressioni perché credettero prudente non affrontare il Toro, come raccontarono parecchi briganti venuti poi in potere della giustizia”. Giuseppe Stopiti, giornalista romano, nella breve biografia che gli dedicò nel 1885 (Toro Cav. Luigi, Galleria Biografica d'Italia, Roma 1885) annotò: “Tutti sapevano del suo meraviglioso coraggio e come fosse tiratore insuperabile […] che da tutta la sua persona tale si diffondeva siccome un magnetico influsso […] che ne era conquistata eziandio tutta la efferatezza di quei malfattori, i quali altresì, lo ammiravano, ed eran costretti ad amarlo, per gli umanitari riguardi che egli adoperava per le famiglie di quegli che aveanla abbandonata per darsi alla vita del bandito. E il suo nome di più splendida luce rifulse, e andò degnamente segnalato fra le individualità per virtù di patriottismo distinte e di particolare benemerenze degnissime”. Sono solo alcune tra le tante testimonianze coeve che, al di là del tono encomiastico, avvalorano la sua fama di intrepido combattente, oltre che di uomo giusto, che ha finito quasi per prevalere sulle sue vicende artistiche sulle quali ha, tra l'altro, pesato la “sfortuna critica” che il secolo passato ha riservato alla pittura dell'Ottocento italiano come espressione dell'Accademia, risparmiandone solo le tendenze considerate di avanguardia come quelle “macchiaiole”. Gli echi di tali convincimenti emergono in taluni passi di Un artista e un patriota dimenticato Luigi Toro che Nicola Borrelli, poliedrico studioso di Terra di Lavoro ed allievo nell'ultima fase di vita del pittore, pubblicò nel 1921 nella Rivista Campana, da lui stesso diretta, nel quale, se da un lato gli conferì onori e meriti rinverdendone la memoria con fondamentali testimonianze sulla vita e l'opera, dall'altro lo tratteggiò come un “artista isolato, individuale, spontaneo; non seguì alcuna scuola” e “aveva dunque involontariamente seguito l'arte del suo tempo e ne aveva coltivato il genere più in voga, lo storico […]. L'arte al tempo del Toro […] usciva appena dal lungo periodo di stasi e di decadenza in cui l'avevano circoscritta l'accademia e l'imitazione”
La ricorrenza del 150° anniversario dell'Unità d'Italia mi sembrò l'occasione giusta per tentare di fare maggiore luce sulle vicende umane ed artistiche del pittore aurunco. Ero a conoscenza della carenza di fonti biografiche sul suo conto e delle difficoltà di ritrovare altre testimonianze artistiche oltre a quelle già note, di cui molte di incerta ubicazione. Ero, però, altrettanto consapevole che la sua eredità umana ed artistica meritava di essere raccolta e raccontata sulla scia anche del mutato contesto della critica che, grazie a quella da parte della storiografia dell'arte per così dire “vivente”, ha sdoganato molti preconcetti nei confronti delle espressioni figurative del gusto romantico e tardo-romantico dell'Ottocento italiano. Il risultato di queste iniziali intenzioni è il volume monografico LUIGI TORO, pittore e patriota dell'800 (ARMANDO CARAMANICA EDITORE, Marina di Minturno (LT), pp. 188) che ho curato e pubblicato nel 2012 con i suggerimenti di Luisa Martorelli, storico dell'arte e responsabile della Sezione Ottocento del Museo di S. Martino, e i contributi di Maria Elena Maffei e Gianluca Puccio, studiosi di storia dell'arte della Sovrintendenza ai BB.AA di Napoli.
La monografia, che si è fregiata del logo ufficiale delle Celebrazioni dei 150° anniversario dell'Unità d'Italia concesso dalla Presidenza del Consiglio, porta alla luce significativi elementi storico-critici e riferimenti iconografici inediti o finora trascurati che, interconnessi con le fonti già note, con le vicende storiche ed artistiche coeve e coi recenti studi sull'arte figurativa ottocentesca, hanno allargato i confini finora conosciuti del percorso artistico ed umano del pittore aurunco che si è rivelato molto più articolato e complesso  di quello finora tramandato, con linguaggi figurativi, sentimenti e ansie comuni a quella folta schiera di artisti nati nella prima metà dell'Ottocento che, coniugando formazione accademica e istanze realiste, seppero esprimere con un forte senso della libertà i valori artistici più “moderni” e le attese dei cambiamenti sociali e politici attesi dal contesto culturalmente più impegnato della società dell'epoca.
Di famiglia benestante, Luigi Toro restò orfano di padre fin dalla più tenera età. Manifestò ben presto un innato talento artistico e, fin da giovanissimo, assimilò le nuove idee indipendentiste mazziniane dal fratello Francesco e dallo zio Nicola, aderenti alla locale vendita carbonara.
Il successivo soggiorno a Napoli, dove frequentò dal 1853 la Real Accademia di Belle Arti come allievo di Giuseppe Mancinelli, fu occasione di crescita artistica e di confronto anche ideologico con i giovani talenti che la frequentavano, alimentandosi di un'arte intrisa di classicismo incline alle ideologie patriottiche. Tra i tanti, Domenico Morelli, che sarà il suo punto riferimento artistico negli anni della formazione, e il suo coetaneo Bernardo Celentano, sfortunato talento napoletano che morirà appena ventottenne a cui fu legato da sincera amicizia.
Dal '56, si sposterà, insieme ai due fidati amici, tra Roma e Firenze per perfezionare gli studi artistici. A Roma fu nell'atelier del Maestro bergamasco Francesco Coghetti, frequentato dai migliori giovani artisti dell'epoca. A Firenze, in un contesto artistico certamente più dinamico di quello napoletano e romano rigidamente compressi in forme artistiche condivise dalle gerarchie politiche, si ritrovò nel gruppo di pittori provenienti da tutta la penisola che si incontravano al Caffè Michelangiolo. In quell'effervescente clima culturale contaminato dalle nuove idee libertarie e patriottiche, si legò a Telemaco Signorini il maggior esponente dell'espressione “macchiaiola” anticipatrice di nuovi meccanismi percettivi nella pittura. Insieme si resero protagonisti di ardite azioni propagandistiche, come quella inscenata al Teatro del Cocomero – poi Teatro Niccolini – dove dai palchi buttarono in platea volantini inneggianti alla rivolta. Lo ricorda lo stesso Signorini nel suo Caricaturisti e Caricaturati al Caffè Michelangiolo (1893) dove, tra l'altro, non dimenticò di annotare come Toro “degno di questo cognome, era molto più forte di Buglione (un artista torinese soprannominato l'Ercole Torinese, n.d.a.) e ardito quanto lui, smanioso di esercizi atletici, alzava con un braccio solo i marmi della nostra stanza legati insieme. Di notte, per igiene, dormiva nudo sul tetto di casa sua, in Piazza Santa Maria Novella, e con dei chiodi si appuntava il golfetto”.
Tra il 1858 e il 1859 Toro soggiornò a Parigi, meta riconosciuta del sogno “romantico”, per studiare dal vero i grandi Maestri francesi della Grand Art, da Ingres, a Delacroix, a Gericault, a Couture (di cui copiò uno dei suoi dipinti più famosi, I romani della decadenza, in un veloce studio di dimensioni ridotte) e a Paul Delaroche, riconosciuto capostipite della “pittura di storia”, che riteneva compatibili con la sua formazione e con la sua “opinione artistica” che intese poi affermare con le sue grandi tele di carattere storico. Si avvicinò anche al realismo naturalistico dove soggetti e luce erano studiati direttamente en plein air dagli artisti della innovativa Scuola di Barbizon e da autori come Jules Breton, di cui copiò La benedizione del grano nell'Artois, che si ispirava alla vita nei campi con atmosfere che si ritrovano nelle sue più rappresentative tele naturalistiche degli anni '60 ambientate nella campagna laurese: Trebbiatura all'Aria Nova e La mietitura (o La messe) che, donata alla Regina Margherita, fu poi esposta nel Museo istituito negli anni '30 del '900 da Pietro Fedele nella Torre di Pandolfo di Capodiferro, sita nei pressi della foce del Garigliano, e fu trafugata dai tedeschi in ritirata.
A Parigi trovò anche il tempo di frequentare la palestra di un certo Monsier Roux che lo presentava come l'uomo più forte d'Italia, a conferma della sua esuberanza fisica che lo aiuterà a superare le difficoltà delle campagne militari che affronterà di lì a poco. Nel maggio del '59, allo scoppiare della Seconda Guerra d'Indipendenza, si arruolò nei Cacciatori delle Alpi, il corpo di volontari costituito per l'occasione da Giuseppe Garibaldi e fu aggregato, molto probabilmente, al battaglione comandato dal gaetano Enrico Cosenz dove militava anche Pilade Bronzetti, a cui dedicherà un intenso dipinto celebrativo del suo sacrificio a Castelmorrone.
Il suo impegno militare continuerà, come già evidenziato, nelle Guide garibaldine dove si distinguerà in speciali incarichi avuti dallo stesso Garibaldi e nel primo sbarco di garibaldini in Calabria al comando di Giuseppe Missori. A questa temeraria impresa dedicherà due opere autobiografiche dipinte negli anni '60 e successivamente replicate, Avamposti de' primi 200 garibaldini sbarcati in Calabria ed Esploratori garibaldini nelle Calabrie, che furono acquistate da Vittorio Emanuele II per la Reggia di Monza.
Terminata la campagna garibaldina, ritornò nel natio villaggio dove, pur impegnato a reprimere gli episodi di brigantaggio, riprese la sua attività artistica dipingendo, tra gli altri, i soggetti rievocativi militari e quelli a carattere naturalistico innanzi menzionati che presentò, nel corso degli anni '60, in alcune importanti esposizioni a Napoli, Torino e Dublino.
Nel 1870 si trasferì a Roma insieme alla moglie Clementina Capogrosso, per dedicarsi alla sua passione pittorica. Aprì lo studio in Via Margutta, centro della vita artistica romana. Frequentò il noto Circolo degli Artisti e partecipò a diversi eventi artistici romani organizzati dall'Associazione Artistica Internazionale e dalla Società Amatori e Cultori di belle Arti, in cui fu a volte anche membro di giuria. Nel 1873, fu nell'ambito della selezione di artisti italiani presenti alla Esposizione Internazionale di Vienna dove presentò Riposo di cacciatori (cm 64,5x158) che considero una delle sue opere più ispirate e significative: in una inquadratura densa di richiami naturalistici e di moderna concezione, quasi fotografica, si ritrae in primo piano semidisteso per terra insieme ai cugini durante una battuta di caccia, con una sfolgorante camicia rossa che si intravede sotto la giacca, a testimoniare – se ce ne fosse ancora bisogno – il suo grande attaccamento a quei simboli patriottici in cui aveva creduto fortemente. E non a caso, questa emblematica ed intensa immagine l'ho scelta come copertina della monografia a lui dedicata.
Alla mostra organizzata nel 1876 a Roma dalla Società Amatori e Cultori espose la sua prima grande opera di carattere storico-patriottico, Agostino Nifo alla corte di Carlo V (cm 285x396), che presentò l'anno dopo anche alla Esposizione Nazionale di Napoli (1877), col quale contava di affermare quella che chiamava la sua “opinione artistica” nel campo della “pittura di storia”. I temi che rianimavano valori e virtù eroiche del passato per rinsaldare l'identità nazionale, erano propugnati dalle istituzioni dell'epoca e da importanti esponenti della cultura, da Manzoni, a Mazzini, a Gioberti, D'Azeglio, Tommaseo e Franceso De Sanctis, favorevoli all'affermazione di un'arte utile per la collettività. Cosicché, gli artisti attingevano dalla storia medioevale e rinascimentale delle tante realtà territoriali in cui era suddivisa la penisola - che, invero, si eleva a storia italiana e universale - soggetti ed episodi che trasponevano in chiave patriottica nei loro dipinti. In quest'opera, quindi, il pittore aurunco, sfruttando abilmente la commissione approvata nel 1870 dal Comune di Sessa Aurunca, rievocò per tale nobile scopo un aneddoto sul celebrato filosofo rinascimentale Agostino Nifo, detto anche il Sessa o il Suessano per le sue origini, che appare seduto col capo coperto davanti all'Imperatore Carlo V, ostentando fierezza e non acquiescenza al potente Sovrano straniero. Più tardi, in un dipinto ancora più maestoso di ben quattro metri per sei, nell'ambito della stessa commissione comunale, ricorderà un altro suo illustre concittadino, Taddeo de Matricio, detto da Sessa, che difende al Concilio di Lione dalla scomunica papale l'Imperatore Federico II, considerato il primo propugnatore dell'unificazione italiana. Finalità ed ispirazioni, dunque, ben diverse da talune improvvide interpretazioni che lo indicheranno semplicisticamente come “pittore di storia locale”.
Nella esposizione romana, l'Agostino Nifo raccolse lusinghieri consensi da parte della critica, tanto da essere il favorito per una medaglia. Raccolse, però, solo una “menzione di lode” scatenando polemiche per lo “scandaloso verdetto” che ebbe vasta eco sulla stampa. A conforto anche economico del pittore, il Re Vittorio Emanuele II acquistò il quadro innescando polemiche col Comune di Sessa Aurunca che lo aveva commissionato. Il pittore si affrettò a dipingerne una seconda versione che fu collocata nella Sala Consiliare sessana e, dopo una lunga controversia, interamente documentata nella monografia, la questione fu appianata.
L'attività artistica di Toro proseguì, con un certo successo di pubblico e di critica, con la partecipazione ad altre mostre ed esposizioni private con produzioni che spaziavano nei diversi generi artistici in voga, in cui si esprimeva con buona padronanza tecnica: dalle scene paesaggistico-naturalistiche, a quelle di genere, ai ritratti, tra cui quelli di Re Umberto e della Regina Margherita e di altri illustri personaggi romani e sessani. Purtroppo, il suo patrimonio artistico è andato in gran parte disperso per la scarsa cura post-mortem, ma le ricerche condotte hanno portato al ritrovamento di molte opere e all'individuazione di un cospicuo numero di altre di ubicazione ignota, a comporre un insieme significativo della sua produzione pittorica messo in evidenza nella monografia.
Sebbene riservato e schivo, Luigi Toro partecipò attivamente anche alla vita mondana della neo-Capitale d'Italia. Ben accolto nella Corte Reale, frequentò il famoso salotto della Regina Margherita e fu benvoluto sia nel mondo artistico, sia da noti personaggi della cultura e della politica, da Spaventa, a Minghetti, a Rattazzi. Ma tra tutti, merita di essere ricordata la sincera amicizia che lo legò a Francesco De Sanctis che, tra l'altro, fu deputato nella circoscrizione di Sessa Aurunca, a cui dedicò post-mortem il dipinto Pagliaio del defunto Professor De Sanctis, ai bagni minerali di Sujo. Ricordo dal vero.
Nel 1885 produsse il secondo grande soggetto di carattere patriottico, La morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone, di ben quattro metri di altezza per sei di lunghezza, dedicato all'eroico Maggiore mantovano caduto sul fronte del Volturno per proteggere le spalle alle truppe di Nino Bixio in cui militava anche Toro. Il dipinto sviluppa un tema risorgimentale celebrativo, filone prediletto dai tanti “pittori soldato” dell'epoca – basta citare Girolamo Induno, Michele Cammarano, o i Macchiaioli stessi – che, da diretti testimoni, proporranno episodi e scene delle campagne militari che portarono all'Unità d'Italia.
In questo soggetto l'artista cede a sperimentazioni dinamiche con citazioni paesaggistiche moderne ed essenziali nella pennellata e nei colori che, su diversi piani prospettici, esaltano la scena principale in primo piano col corpo esanime di Pilade Bronzetti che, davanti ai soldati borbonici che lo osservano, “campeggia, occupa il terreno non come un vinto, ma come un vincitore”. Così annotò un recensore d'eccezione, Gabriele D'Annunzio, che presentò il dipinto sul giornale romano La Tribuna del 10 luglio 1885: “Ieri fummo a visitare lo studio del pittore Luigi Toro […] in Via Margutta al numero trentatre […]. Entrando il gran quadro è di fronte, si prova un'impressione singolare: un'illusione di campagna aperta […] con un effetto di prospettiva bello e giusto […]. La scena è dopo la battaglia. Il teatro è veramente degno del fatto; ha una grandiosità eroica […]. Luigi Toro che al merito del pittore e alla nobiltà degli intendimenti accoppia una modestia senza pari, è degnissimo dell'onore e della ricompensa”. Brevissimi stralci di una recensione corposa e appassionata interamente riportata nel testo da me curato.
Il dipinto, destinato nelle intenzioni dell'artista, alla città di Mantova patria del valoroso maggiore garibaldino, rimase però invenduto e finì in proprietà del Banco di Napoli a seguito delle esecuzioni ipotecarie per le difficoltà economiche nell'ultima parte della sua esistenza. La tela, penalizzata dalle grandi dimensioni e da un soggetto forse non troppo gradito alle istituzioni monarchiche savoiarde, non trovò mai una stabile sistemazione. Dopo essere stato esposto l'ultima volta nel 1961 in occasione delle celebrazioni del Centenario dell'Unità d'Italia nella Reggia di Caserta, finì nel il Deposito Territoriale della Soprintendenza dei BB.AA. di  Napoli di Castel S. Elmo. “È dolorosa, per chi è preposto al settore della tutela del patrimonio storico artistico, la condizione di un patrimonio così significativo, difficile da gestire e oscurato nel dimenticatoio dei depositi, ignorato da tutti. Dunque, quando è giunta la notizia delle iniziative delle ricerche storiche e artistiche favorite dalle manifestazioni delle Celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, è stato incoraggiante poter auspicare la pubblicazione, curata con grande passione e tenacia da Gaetano Mastrostefano, in collaborazione con gli storici dell'arte Maria Elena Maffei e Gianluca Puccio, ma soprattutto vedere maturata la possibilità di un intervento di restauro del dipinto di Luigi Toro, favorito dal rilancio dei soggetti a carattere risorgimentale. Siamo fiduciosi che da domani, con la presentazione di questo libro, il Gruppo Bancario Intesa Sanpaolo, attuale proprietario del quadro, si adoperi efficacemente per un intervento di restituzione globale dell'opera, sostenendo finanziariamente non solo il suo recupero integrativo, ma anche la sua destinazione finale, dovunque sia, purché fruibile a tutti, venga alla luce l'opera di Luigi Toro”.
Così Luisa Martorelli, dirigente dell'allora Soprintendenza per il Polo Museale Napoletano, si esprimeva nella sua prefazione al volume monografico riferendosi al dipinto su Bronzetti. E mai auspicio fu così felice e la fiducia ben riposta: è recente la notizia che il Gruppo Bancario Intesa Sanpaolo ha meritoriamente finanziato il restauro del dipinto che ritornerà, quindi, ad essere fruibile in una sede adeguata che sembra essere, nelle intenzioni, proprio la città di Mantova. È questa un'altra importante occasione che, dopo il restauro del 1999 e la ricollocazione a Montecitorio della prima versione dell'Agostino Nifo che era finito, per la damnatio memoriae che aveva colpito i pittori di storia, nei depositi del Museo di Capodimonte dopo esservi stato esposto stabilmente fin dalla sua costituzione, riporterà all'attenzione della cultura il pittore aurunco e la sua opera dimenticata.
Il dipinto dedicato a Bronzetti doveva comunque segnare una svolta nella produzione artistica di Luigi Toro nel campo della “pitture di storia” rievocativa di episodi del passato, oramai non più proponibile. Ma per rispettare la commissione col Comune di Sessa Aurunca, fu obbligato a produrre il Taddeo da Sessa al Concilio di Lione, realizzato con le stesse enormi dimensioni del Bronzetti, che fu presentato alla III Esposizione Nazionale di Bella Arti di Roma del 1893 con risultati critici insoddisfacenti. Si acuirono, quindi, le difficoltà di tenuta di una attività ancorata a sicurezze e coerenze stilistiche superate dai tempi con risultati percepiti deludenti. Il progressivo logoramento interiore per la mancata vendita del quadro su Bronzetti, con strascichi e tensioni finanziarie che lo avevano costretto ad ipotecare anche il suo cospicuo patrimonio ereditario familiare, lo spinsero a ritirarsi nella sua grande casa natia, in Via Pietrabianca a Lauro di Sessa. In quel “piccolo tempio dell'arte e di ricordi, al cospetto dei verdi colli aurunci che al pittore ricordavano i giovani anni di entusiasmi e di sogno”, come ricorda Nicola Borrelli, riprese anche dipingere con rinnovato fervore “ macchie, impressioni, bozzetti, studi di figure e paesaggi, […] mietitori seminudi effusi al sole, trebbiatori a coppie sul tappeto di spighe, contadine nel pittoresco costume locale, lavandaie presso un ruscello, spigolatrici sotto il sole canicolare, capanne, pagliai, biche, covoni, […] piccole opere – chissà dove andate a finire! – franche, sincere, semplici, come l'animo dell'autore” da cui “emerge tutta la personalità artistica del Toro, la vera, quella che i più ignorano, che definisce l'artista sotto lo stimolo del sentimento ispiratore”.
Quindi, nel “suo villaggio natio, un tantino selvaggio, un tantino primitivo ancora, e però, forse, all'artista più caro”, Toro fu sempre attivo, né si isolò artisticamente. Difatti, da una recente ricerca, è emersa una sua partecipazione alla ESPOSIZIONE GENERALE ITALIANA tenutasi a Torino nel 1898.
La sua passione per l'arte e la stima e il rispetto dei concittadini che, per il la sua levatura morale e il suo carismatico passato, lo rielessero Consigliere Comunale, lo confortarono dagli affanni e dalle ristrettezze economiche di quegli anni.
Luigi Toro morì quasi in povertà il 13 aprile del 1900 a Pignataro Maggiore nella casa dei Borrelli che lo avevano generosamente sostenuto nell'ultimo periodo della sua esistenza. Grande fu il cordoglio degli amici artisti - tra tutti, Domenico Morelli che lo onorò come “artista chiarissimo” e “amico egregio” in un telegramma alla moglie Clementina - e della comunità aurunca per la perdita dell'artista, dell'uomo e del patriota fedele agli ideali di giustizia e libertà che appartennero ai più nobili spiriti di quell'ineguagliabile, ma allo stesso tempo tormentato periodo storico culminato con l'Unità d'Italia.

Gaetano Mastrostefano
(da Il Sidicino - Anno XIII 2016 - n. 7 Luglio)