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Indice Gaetano Mastrostefano
 
 

Costumi popolari di "Terra di Lavoro"

tra il XVIII e il XIX secolo
 
I costumi delle aree sidicina e aurunca nelle “gouaches” e nelle incisioni a stampa
 
Figura 1 (Collezione Di Benedetto)
Figura 2 (Collezione Di Benedetto)
Figura 3
 

Le popolazioni delle varie regioni italiane vantano consolidate usanze sedimentate nel tempo, alle quali ricondurre singole “identità locali”, orgogliosamente rivendicate. I dialetti, le cerimonie religiose, le abitudini alimentari, fino al modo di vestire, costituivano – e, per certi versi, costituiscono ancora – elementi di riconoscibilità e, nello stesso tempo, di differenziazione delle singole comunità. In generale, in tutta la penisola, specialmente nei siti extracittadini e rurali, l'abbigliamento identificava l'appartenenza ad un determinato ambiente e, in particolari situazioni, individuava alcuni aspetti della vita sociale: lo stato di nubile o di donna sposata, il lutto e le festività richiedevano vestiti e acconciature diverse. Anche nel Regno di Napoli e, quindi, nell'antica Provincia di Terra di Lavoro, che comprendeva un territorio molto più vasto dell'attuale moderna Provincia di Caserta, l'abbigliamento dei ceti popolari rappresentava un aspetto identificativo ricco di varietà e sfumature che, grazie alla cultura “illuminista” settecentesca, attirò l'interesse degli intellettuali e dei rampolli delle famiglie nobili e benestanti europee che intraprendevano il “grande viaggio”, il cosiddetto Grand Tour, che si concludeva nel territorio napoletano alla scoperta delle vestigia di Ercolano e Pompei e di tutto ciò che era antico, mitico e pittoresco. Di conseguenza, la ricerca di “ricordi” per testimoniare la visita di quei luoghi ricchi di suggestioni e primitiva bellezza, stimolò la produzione di disegni, acquerelli, “gouaches” e incisioni a stampa, dapprima con le raffigurazioni di vedute e, poi, anche di costumi popolari che segnarono l'inizio di una importante fase che, dopo un primo interesse più schiettamente speculativo, contribuì a preservare la memoria delle usanze delle comunità meridionali che si è poi evoluta in “Storia del Costume”, con valenza culturale, artistica ed etnografica. Ci fu, però, un momento che impresse una vera e propria svolta nel modo di rappresentare i costumi popolari meridionali. Fu quando, verso la fine del '700, Ferdinando IV di Borbone, sulla scia del crescente interesse per questo tema, pensò di sfruttarlo commercialmente per decorare i servizi di porcellana prodotti dalla Real Fabbrica di Capodimonte. Il Sovrano napoletano era orgoglioso delle tradizioni del suo popolo, del quale condivideva molte abitudini e anche il linguaggio. Non a caso, aveva già introdotto nell'arte presepiale figure abbigliate con vestiture settecentesche. Pertanto, decise di sostenere una campagna di ricognizione nelle Province del Regno per restituire “dal vero” le varie fogge del modo di vestire degli abitanti dei vari territori, fino a quel momento proposte in maniera poco realistica, prevalentemente come “souvenir”.
Il compito di rilevare dal vero le fogge degli abiti in uso nel Regno di Napoli fu affidato nel 1783 a due tra i più noti pittori “di genere” dell'epoca: Alessandro D'Anna e Saverio Della Gatta. Ben presto, però, Della Gatta fu sostituito da Antonio Berotti e, poi, Stefano Santucci sostituì D'Anna. Negli anni successivi subentrarono altri artisti, come Giacomo Milani, Antonio Cioffi ed altri (per la complessità del lavoro e le difficoltà organizzative, le ricognizioni durarono quasi quindici anni).
Le raffigurazioni furono eseguite con la tecnica pittorica detta a “guazzo”, e “gouache” furono dette le rappresentazioni dipinte con questa tecnica simile all'acquerello, ma con una resa meno trasparente per l'aggiunta di pigmenti (come il gesso) e leganti (come la gomma arabica) che restituivano una stesura più opaca.
Duecentootto “gouache” fra le tante realizzate, sono rimaste conservate presso Palazzo Pitti a Firenze, dove erano approdate per ragioni dinastiche e di intrecci matrimoniali fra i Borbone e i Lorena. Di queste, quarantadue riguardano l'antica Provincia di Terra di Lavoro, di cui venti firmate da Alessandro D'Anna, tutte datate 1785, che comprendono quelle riguardanti i pittoreschi costumi degli antichi territori sidicino ed aurunco che ci interessano più da vicino: Teano (“Tiano Sedicino e sua veduta”), Francolise (“Torre di Francolisi”) e due dei cosiddetti “Casali” di Sessa: Cascano e Piedimonte Massicano. Queste “gouache” furono eseguite espressamente per essere donate al Granduca di Toscana in occasione di una visita effettuata nel 1785 a Firenze da Ferdinando IV e sua moglie Maria Carolina. Si tratta, quindi, di riproposizioni realizzate appositamente, ma - è bene precisarlo - tutte le “gouache” prodotte, incluse quelle originarie dirette alla Real Fabbrica di Capodimonte, non furono eseguite “in loco”, ma sviluppate successivamente, o dagli autori stessi o da altri esecutori, sulla base delle bozze e degli appunti elaborati durante le ricognizioni.
Nei soggetti realizzati, gli autori proposero un abbigliamento arricchito da accessori raffinati, aggiunti ad imitazione delle classi più elevate che, quindi, non forniscono indicazioni sulla reale condizione sociale dei personaggi ritratti che, peraltro, risultano poco rappresentativi delle classi rurali dell'epoca. Probabilmente, alla base di ciò, vi fu una precisa indicazione del Sovrano napoletano: quella di restituire, a scopo propagandistico, una immagine quanto più decorosa e rassicurante delle popolazioni delle Provincie che si confrontavano con dure realtà di miseria ed arretratezza e che, il più delle volte, non erano state benevolmente giudicate nei resoconti della cosiddetta “letteratura di viaggio”. Basta, in proposito, ricordare come la zona napoletana venne equiparata ad un “Paradiso abitato da diavoli”, o l'iscrizione presente presso la località detta dell'Epitaffio, nello Stato Pontificio a circa un miglio dal confine col Regno di Napoli, dove si davano i seguenti avvertimenti ai viaggiatori: “Stai entrando in un nuovo Stato dove troverai gente e costumi assai diversi. Apri bene gli occhi: nessuna precau­zione è superflua. [...]. Denaro portane il meno possibile [...]. Troverai il popolo minuto astutissimo e senza scrupoli: non parlare, non scoprirti, non ostentare ricchezze, non credere alle adulazioni o ci rimetterai le penne”. I popolani delle “gouache” ferdinandee sono, invece, rasserenanti e tranquilli e non vestono i consunti abiti da lavoro di tutti i giorni, ma gli abiti indossati in particolari ricorrenze – feste, sagre paesane, sposalizi o cerimonie religiose – le uniche possibili per sfoggiare “l'abito buono” che ricalcava il modo di vestire dei ceti nobiliari. Infatti, nella “gouache” di Teano (Fig. 1), la donna indossa un elegante abito festivo ornato; ha una mantella azzurra sulle spalle sopra una camicia bianca a scollo alto ed arricciato; usa gioielli, ed ha come copricapo un fazzoletto di lino orlato di merletti; l'uomo ha una giamberga rossa con paramani e asole con guarnizioni dorate e indossa pantaloni corti al ginocchio che evidenziano le scarpe con fibbia argentata. È evidente che non si tratta di contadini.
Nella “gouache” della “Donna di Francolisi”, è rappresentata una donna e un ragazzo, probabilmente una madre col figlio abbigliato quasi come un adulto. La donna indossa una gonna a fitte pieghe sovrapposta con un'altra rimboccata in vita e col doppio grembiule; la vestitura è completata da un bustino e un'elegante giacca di velluto e dal tipico fazzoletto bianco come copricapo.
Sebbene risultino evidenti i contrasti tra la realtà quotidiana e i modelli rappresentati, gli autori sono stati molto attenti a rilevare alcune caratteristiche che contraddistinguono sia l'appartenenza al luogo (la realistica veduta della città di Teano e la Torre del borgo di Francolise sullo sfondo delle rispettive “gouache”; i tipici recipienti di ceramica di Cascano, ecc.), sia lo stato sociale della donna: nella “gouache” delle “Donne di Cascano” si intravedono i tipici orecchini a “navetta” e, sotto il ricco fazzoletto usato come copricapo (detta “magnosa”, risanlente al Rinascimento), spunta la caratteristica acconciatura con le trecce trattate col chiaro d'uovo (per indurirle) che scendevano sulle tempie per essere raccolte ai lati della testa; in altre “gouache”, la donna ha il capo scoperto coi capelli raccolti da nastri, essendo nubile (“Zitella di Venafri”).
Infine, una “gouache” che, diversamente dalle altre, presenta solo la figura maschile: è quella dell'Uomo di Piedimonte di Sessa che indossa un elegante completo da caccia, stesso abbigliamento che Philipp Hackert, celebre pittore della Corte napoletana, sceglie per il principe Francesco ritratto con la famiglia nella tenuta di Carditello (il “Casale” di Piedimonte di Sessa era una nota stazione di caccia, dove spesso si recava anche il Re di Napoli). Di questa “gouache”, come si evidenzierà nel seguito, fu realizzata dallo stesso D'Anna una variante, “Uomo e Donna di Piedimonte di Sessa”, che risponde ad una precisa indicazione della committenza Reale, di cui fu principale coordinatore il direttore delle Real Fabbrica di Capodimonte Domenico Venuti che consigliò agli autori di inserire nella stessa tavola “il modo di vestire degli uomini e delle donne dello stesso paese”. Dunque, sulla base dei bozzetti e degli appunti stesi in sede di ricognizione, si potevano eseguire diversificate raffigurazioni di una stessa località. Si ha, infatti, notizia di ben due esemplari uguali e con le stesse varianti rispetto alla “gouache” di “Tiano Sedicino e sua veduta” eseguiti dallo stesso D'Anna, senza la veduta sullo sfondo e i cani accucciati ai piedi dell'uomo (Fig. 1). Più in particolare: un esemplare è firmato e datato 1782 ed era presente nel catalogo dell'asta del 22 gennaio 2004 della CRISTHIE'S – Sede di New York; l'altro, ugualmente firmato da D'Anna, è invece datato 1786 e fu aggiudicato in un'asta della SOTHEBY'S di New York del 28 dicembre 1998 insieme ad una rarissima “gouache” intitolata “Donna della Cupa di Roccamonfina”, sempre datata 1786 e firmata da D'Anna, di cui, purtroppo, non è stata resa disponibile l'immagine, ma sulla quale vale comunque la pena di soffermarsi. Su una caffettiera e un rinfrescabottiglie in porcellana conservati presso il Museo di Capodimonte di Napoli, si trova riprodotta una immagine catalogata come Donna della Cupa di Sessa [rif. Napoli-Firenze e ritorno, Guida Editori, Napoli, 1991]): le donne sono, però, due, di cui, una seduta su uno spuntone di roccia e con un cesto pieno di uova poggiato sulle gambe e, l'altra, più giovane, le sta di fronte accovacciata a terra con un cane in braccio. Questa figurazione “della Cupa di Sessa” è uguale a quelle “della Cupa di Roccamonfina” riprodotta sulla citata “gouache”? Ma non è questo l'unico interrogativo: la giovane accovacciata col cane in braccio è del tutto identica alla figura della “Ragazza della Cupa di Roccamonfina” inserita, insieme a Suonatori di zampogna di Cerrito, Uomo e Donna di Arienzo, Donna di Marzano, di Airola e di Pietraroja, in una delle tipiche composizioni in gruppo di Saverio Della Gatta, datata 1804 (questa è l'unica figurazione certificata con data e firma dell'autore, riguardante Roccamonfina). Di questo sito mi sono note atre due immagini anonime, di cui una, con una donna inginocchiata in preghiera è una grossolana contraffazione della “Femme de Caravilli”, nel Molise, inclusa nella raccolta “Royaume des Deux Siciles. Costumes. Dessines sur lieux”, edita a Parigi da P. Marino nel 1826 [n.d.a.]). Qualche considerazione nel merito. Della Gatta fu molto attento alla produzione degli artisti più anziani ed affermati e richiamò spesso schemi già consolidati. Sono, infatti, note molte sue riproposizioni di pose di costumi opera di Pietro Fabris, Giacomo Milani e dello stesso Alessandro D'Anna: la “Donna di Pietraroja” della citata composizione è uguale ad una “gouache” attribuita a D'Anna (non inclusa nella collezione lorenese); un acquerello a lui attribuito propone l'inconfondibile posa delle “Donne di Cascano” di D'Anna (a meno della diversa disposizione a terra dei tipici “cocci” e i disegni del bustino delle donna seduta). Sebbene molti studiosi siano concordi nel ritenere che Della Gatta non si sia mosso molto dal suo laboratorio di Napoli, l'aver ricevuto insieme a D'Anna l'incarico Reale non esclude una sua presenza nelle prime ricognizioni che iniziarono proprio in quelle zone, né intrecci e utilizzi di materiale comune tra i due artisti. Difficile, comunque, accertare la reale paternità della figurazione della donna/ragazza della località denominata Cupa: se di Sessa o di Roccamonfina, poco rileva, tenuto conto della prossimità di questi due siti e che il toponimo è alquanto comune delle zone rurali e montane, in quanto, sinonimo di versante vallivo poco soleggiato, o di valle a botte, ovvero di strada rurale stretta di fondovalle. Poco lontano da Sessa c'è il borgo di Cupa e una località detta Valle Cupa è vicina a Roccamonfina, nel limitrofo Comune di Marzano Appio. Un'ultima annotazione, alquanto interessante: in un acquerello datato 23 dec. 1845 in collezione privata, un viaggiatore inglese in ricognizione nella zona del Garigliano, alquanto dotato artisticamente, ritrae “dal vero” una suggestiva “Peppinella of Cupa della Sessa”: una ragazza seduta per terra con accanto un cane: una coincidenza o una sorprendente conferma che la “Ragazza della Cupa” era un modello conosciuto?
Col tempo, la crescente richiesta di questo tipo di “souvenir”, innescò un rapido processo di diversificazione delle tecniche di rappresentazione delle immagini che portò all'affermazione delle incisioni a stampa che consentivano tirature elevate e costi contenuti rispetto alle singole produzioni pittoriche.
Le tecniche di incisione a stampa si erano diffuse a cavallo tra il '400 ed il '500 e si erano via via sviluppate ed affinate raggiungendo, specialmente tra il '700 e l' '800, la perfezione tecnica. Con esse si riproduce sulla carta un disegno inciso su una superficie piana, detta “matrice”, attraverso il tracciamento di solchi mediante attrezzi a punta (bulini e raschiatoi). Tra le diverse tecniche di stampa utilizzate, quelle dette “calcografiche”, furono in origine le più diffuse. Con esse si riportava su carta una immagine inchiostrata, riprodotta per incisione (a rilievo o in cavo) sulla “matrice” (o “lastra”) che, in origine, era di legno (e la tecnica era detta “xilografia”) e, poi, di rame o d'acciaio. Altra tecnica di incisione molto diffusa fu quella cosiddetta all' “acquaforte”: con essa si stampava da matrici metalliche ottenute ricoprendone la superficie con una vernice protettiva sulla quale veniva tratteggiato con delle punte il disegno, in modo da scoprire il metallo; la lastra si immergeva in un acido – da cui il nome dato alla tecnica – che corrodendo il metallo dove mancava la vernice, lasciava i solchi dell'immagine. Ultima, ma non in ordine di importanza, la “litografia” in cui il disegno veniva direttamente eseguito con matite grasse su di un supporto piano (in origine una superficie di pietra da cui derivò il nome della tecnica, poi di zinco); l'inchiostratura si depositava sui tratti grassi del disegno consentendone la riproduzione.
Con l'ausilio di tali tecniche, venne realizzata a Napoli la “Raccolta di Sessanta più belle Vestiture che si costumano nelle province del Regno di Napoli”, impressa nel 1796 dalla stamperia napoletana “Talani e Gervasi” sita al Gigante di Palazzo, anche se sul volume è riportata come data di stampa il 1793. Questa splendida raccolta ricalca prevalentemente le raffigurazioni rilevate da Alessandro D'Anna, ma che, in qualche caso, presentano delle variazioni rispetto a quelle della collezione lorenese di Palazzo Pitti. Infatti: le “Donne di Cascano” si riconvertono in “Donna di Sessa”, anche se le donne sono sempre due e con la stessa posa della “gouache” lorenese, pur presentando differenziazioni nei copricapi e nei ricami sul bustino della donna seduta, oltre che nello sfondo e nella disposizione dei tipici “cocci” a terra; all' “Uomo di Piedimonte” della “gouache” lorenese viene affiancata la donna e la figurazione si trasforma nella già evidenziata “Uomo e Donna di Piedimonte di Sessa”, che fu riproposta nel 1814 anche da Bartolomeo Pinelli ( fig. 2) nella Raccolta di 50 costumi li più interessanti delle città terre e paesi in province diverse del Regno di Napoli disegnati ed incisi all'acqua forte da Bartolomeo Pinelli Romano, se pur con una diversa interpretazione stilistica, tipica di questo artista, più vicina alla cultura “neoclassica” settecentesca. Riconosciuto maestro di questo genere, Pinelli ripropose questa figurazione anche in altre successive raccolte di costumi del Regno di Napoli dove utilizzò, alquanto disinvoltamente, molte pose della raccolta stampata da “Talani e Gervasi”, a comprova che le immagini ferdinandee erano diventati dei veri e propri modelli ai quali si uniformarono le successive rappresentazioni dei costumi popolari.
In verità dieci anni prima dell'avvio delle ricognizioni ferdinandee, era stata pubblicata da Pietro Fabris una Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli dedicata a S.E. il Sig. Cav. Hamilton, diplomatico inglese appassionato collezionista d'arte. La raccolta include incisioni dedicate sia ai costumi di alcune località di Napoli e dintorni (tra cui, Posillipo e Chiaia, Torre del Greco, Ischia, Procida, fino a Gaeta e alla Calabria), sia dei tipici “mestieri” napoletani (“Acquaiolo napolitano”, “Venditore di sorbett'a minuto”, “Venditore di castagne arosto”, ecc.). Ma cinque anni prima, nel 1768, il noto “graveur” parigino Pierre Etienne Moitte, a conferma del particolare interesse che il genere suscitava Oltralpe, aveva pubblicato una raccolta, Divers habillements suivant les costumes d'Italie, con alcune raffigurazioni di Jeanne Baptiste Greuze dedicate ai costumi napoletani. Intorno agli anni '20 dell' '800, nelle principali vie cittadine di Napoli – da Via Toledo, a Chiaja, al Gigante di Palazzo – accanto alle botteghe che offrivano acquerelli e “gouaches”, anonime o opera di affermati autori del genere (dallo stesso Della Gatta, a Michela De Vito, a Antonio Del Giudice, ecc.), sorsero numerose stamperie che proponevano incisioni con vedute di Napoli col Vesuvio fumante, con costumi popolari, ma soprattutto con caratteristiche “scene di genere” che, raccontando la pittoresca vita quotidiana napoletana, erano molto apprezzate dai “tourist”. Prevalsero, quindi, interessi prettamente commerciali, diversi da quelli che avevano ispirato le “gouache” ferdinandee e gli editori iniziarono a produrre album sempre meno specializzati, in cui predominavano scene con gruppi intenti a ballare la tarantella, o a giocare a carte, o impegnati nei tipici mestieri e nelle più svariate attività di vendita (acquaioli, fruttaioli, ecc.) o in strampalati esercizi (mangiamaccheroni). I costumi, se presenti, rappresentavano le località di una certa notorietà o quelle toccate dall'itinerario del Grand Tour, ed erano spesso utilizzati con connotazioni territoriali più ampie (ad esempio, “Donna dei dintorni di Napoli”). Tali scelte penalizzarono innanzitutto i centri minori che avevano, invece, caratterizzato le “gouache” ferdinandee, ma anche quelli che avevano avuto una certa rilevanza in quel contesto, tra cui Teano, i cui costumi popolari decoravano anche i servizi di porcellana di Capodimonte (alla figura 3, un rinfrescabottiglie con l'immagine di “Tiano Sedicino e sua veduta” conservato nel Museo di Capodimonte, [Rif. Napoli-Firenze e ritorno, Guida Editori, Napoli, 1991]).
Le variopinte tavole delle nuove raccolte, furono realizzate prevalentemente con la tecnica litografica, introdotta a Napoli dallo svizzero Carl Muller intorno al 1816. Tra le opere più significative, quelle prodotte da due famosi sodalizi: quello tra il litografo Domenico Cuciniello e il disegnatore Lorenzo Bianchi che, col marchio “Cuciniello e Bianchi”, diedero vita a pregevoli opere, tra cui, la Nuova raccolta di scene popolari e costumi di Napoli, del 1827; e quello tra i litografi ed illustratori Gaetano Dura e Federico Gatti che, col marchio “Gatti e Dura”, stamparono altre pregiate opere come il Viaggio pittorico nel Regno delle Due Sicilie, pubblicato a Napoli prima a dispense fra il 1829 e il 1832 e poi in tre volumi, e Napoli e Contorni del 1857, un album di 24 litografie dove, tra un “facchino che dorme”, una “venditrice di uova”, una “lavandaia”, un “mangiamaccheroni” ed altre caratterizzazioni, compare sorprendentemente una splendida nuova versione, del tutto diversa dalle precedenti, della Donna di Sessa che è presente, a conferma di quanto già evidenziato, insieme a sole altre quattro litografie con costumi di note località di Napoli (il quartiere di Chiaja) e suoi dintorni (Sorrento, Capri e Procida).
Infine, non certo per importanza, ma solo per cronologia, Usi e Costumi di Napoli e Dintorni, fondamentale opera del genere pubblicata nel 1857 da Francesco de Bourcard in tre splendidi volumi, che comprendono descrizioni e saggi monografici curati da illustri autori dell'epoca (da Francesco Mastriani, a Enrico Cossovich, a Emanuele Bidera), e cento illustrazioni con straordinarie “scene di genere” opera di notissimi pittori dell'epoca, come Filippo Palizzi, Teodore Duclere e il formiano Pasquale Mattei. Intorno alla prima metà dell'ottocento videro la luce, prevalentemente in Francia, alcune delle più note raccolte a stampa, a carattere quasi enciclopedico, coi costumi di tutti i popoli del Mondo, che includevano anche alcune tavole della Provincia di Terra di Lavoro. Nel 1842 iniziarono ad essere pubblicate dalla casa editrice Aubert di Parigi le splendide litografie a colori di grande formato (in folio) della raccolta GALERIE ROYALE DE COSTUMES che includeva anche alcune tavole inerenti la Provincia di Terra di Lavoro, incise da Marie Alexandre Alophe su disegni del pittore Eduard Henri Theophile Pingret che diede vita all'immagine della “Jeune Fille de Sessa”: una giovane donna ripresa di fianco che regge un cesto pieno di rose rosse. Il suo abbigliamento è più moderno rispetto alle precedenti figurazioni, pur conservando le tipicità dell'area di riferimento, tra cui, il caratteristico fazzoletto bianco merlettato come copricapo e le tipiche trecce raccolte ai lati della testa, oltre alla gonna e alla sopragonna piegata a sacca. Questa immagine diventò una vera e propria icona riproposta costantemente nelle similari raccolte d'Oltralpe di quel periodo, tra cui, quella pubblicata a Bruxelles nel 1843-1844 intitolata Moeurs, usages et costumes de tous les peuples du monde d'après des documents authentiques et les voyages les plus récents. di Auguste Wahlen (pseudonimo di Jean-Francois Nicolas Loumyer), nota in Itala per la versione stampata a Torino nel 1844-1847 nella traduzione di Luigi Cibrario, intitolata "Usi e Costumi sociali, politici e religiosi di tutti i popoli del mondo, da documenti autentici e dai viaggi migliori e più recenti di N. Dally”. Nei quattro volumi di quest'opera enciclopedica sono presenti 240 tavole incise su legno, con pregevoli coloriture a mano rifinite con chiara d'uovo, che, per quanto riguarda l'Italia, riprendono i modelli della GALERIE ROYALE ridisegnati, però, da altri autori che li riproposero con pose speculari e con modifiche di alcuni particolari (ad esempio, la “Jeune Fille de Sessa” regge il cesto di fiori con le braccia piegate). Oltre al costume di Sessa, relativamente alla Provincia di Terra di Lavoro, sono presenti la “Donna di San Germano”, la “Contadina agiata del villaggio di Sora”, oltre ad una “Donna di Avellino e Mola” (sic!), connubio alquanto strano tra due centri ricadenti non solo in Province diverse, ma in siti quasi antitetici: una, Mola di Gaeta, in Terra di Lavoro, è in riva al mare; Avellino, nel Principato Ulteriore, è in zona montana. Ciò conferma l'uso di stereotipi con ambiti territoriali piuttosto ampi.
Infine, per concludere questo rapido excursus, la raccolta intitolata MUSÉE COSMOPOLITE, pubblicata a Parigi dall'editore Pierre Eugene Aubert, tra il 1850 e il 1863. Diffusa a tavole sciolte, è ricca di ben 468 tavole di medio formato con i costumi di tutti i Paesi del mondo “dessinés d'apres natur, gravés sur acier par le premier graveurs, et colories à l'aquerel retouscée”. Anch'esse riproponevano, nella sostanza, molte raffigurazioni della GALERIE ROYALE, ma eseguite da altri pittori. Le tavole riguardanti l'Italia sono 42 e contengono solo due costumi di Terra di Lavoro: la “Femme de San Germano” e l'immancabile “Jne Fille de Sessa” ridisegnata da Adolphe Portier rispettando l'originaria impostazione di Pingret, ma con qualche aggiunta: per terra, in primo piano davanti ad alcuni scalini, c'è una rosa rossa caduta dal cesto che la ragazza regge con le braccia tese.

Gaetano Mastrostefano
(da Il Sidicino - Anno X 2013 - n. 11 Novembre)