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L'Unità d'Italia e il brigantaggio meridionale

(I parte)

L'origine del brigantaggio meridionale dopo l'unificazione, deve essere vista contestualmente al compimento dell'unificazione italiana.
Franco Molfese, nella sua “Storia del brigantaggio dopo l'Unità d'Italia”, spiega la particolare virulenza del fenomeno del brigantaggio come derivante dall'isolamento del governo di Torino nel Sud, dovuto alla spaccatura interna alla borghesia e al suo ceto politico, che spinse all'opposizione i contadini poveri, oltre che gran parte della borghesia meridionale. Inoltre, la relativa stasi dell'avanzata garibaldina nel Sud continentale, nel settembre 1860, diede modo ai borbonici di organizzare la resistenza, sia sul piano dell'esercito regolare che su quello della guerra per bande, che già aveva dato buoni risultati durante la campagna sanfedista del 1799 contro la Repubblica Partenopea. Il progetto borbonico prevedeva, infatti, lo scatenamento delle masse contadine contro i possidenti liberali, che facilmente potevano essere identificati come i complici degli invasori piemontesi.
In verità, tale piano non costituiva una novità.
Nel 1860, vi erano state acute tensioni sociali nel regno borbonico e ciò, non a caso, era stato uno dei motivi che aveva consigliato la spedizione garibaldina, che aveva visto in una tale situazione in fermento, la possibilità d'incidere maggiormente su di essa. Il calcolo si rivelò, sotto un certo aspetto, esatto, almeno fino a quando la spedizione dei Mille ebbe una sua funzione catalizzatrice, rispetto alle contraddizioni sociali in Sicilia. Le masse contadine che si schierarono con Garibaldi, l'accorrere dei volontari, lo sfasciarsi dell'apparato militare borbonico, non furono che gli aspetti più appariscenti di un sommovimento sociale che aveva al centro il mondo contadino.
Naturalmente, quando gli obiettivi del moto contadino e quelli garibaldini andarono diversificandosi, l'urto fu quasi inevitabile.
L'episodio di Bronte, che fu uno dei più eclatanti, ma non certamente l'unico, segnò la crisi della direzione borghese-democratica del moto contadino e la fine dello stesso, comportando, quale reazione alla repressione garibaldina, la ricaduta nella passività e l'esaurirsi del volontariato, oltre che il rifiuto della coscrizione obbligatoria.
Questo per la Sicilia.
Nel continente, invece, le cose andarono diversamente già dall'inizio.
L'atteggiamento dei contadini fu qui completamente diverso. Le prime reazioni all'avanzata garibaldina e alle sopraggiungenti forze piemontesi, da parte de contadini furono legittimiste e caratterizzate, all'inizio, da forme di lotta prevalentemente urbane e di massa che prevedevano l'occupazione dei villaggi e la formazione di governi provvisori piuttosto che l'adozione della tattica della guerra per bande.
A questo mutamento di comportamento dei ceti contadini, diedero il loro contributo diversi fattori: da un lato la presenza, rispetto alla Sicilia, di centri di resistenza militare legittimista, costituiti da settori ancora operanti dell'esercito borbonico e da alcune piazzaforte che erano rimaste ancora da conquistare; dall'altro la scarsa o nulla speranza di modificazione delle loro condizioni materiali derivanti da un cambio di regime e un maggiore legame con la dinastia borbonica rispetto alla Sicilia che aveva sempre sofferto di pulsioni autonomistiche nei confronti dell'autorità napoletana. A ciò si aggiunga, e non è un fatto secondario, la rapida conversione al credo politico liberale ed unitario, e quindi lo schierarsi con i piemontesi, di larga parte dell'aristocrazia locale e della nascente borghesia, cosa questa che certamente non invogliava le masse contadine ad identificarsi con tali posizioni.
Bisogna tenere conto, come a suo tempo mise in rilievo Maria Rosa Cutrufelli, che gli anni dal 1820 al 1860 erano stati segnati da una serie di modificazioni dell'economia agricola e del regime di proprietà della terra, che avevano portato gruppi di nuovi possidenti ad affiancarsi alla classe dominante, costituita da baroni agrari. Ciò aveva causato un processo di usurpazione delle terre tradizionalmente comuni, producendo un forte risentimento dei contadini, che si vedevano privati di quegli usi civici che, in un modo o nell'altro li soccorrevano nella loro magra esistenza, e quindi una violenta ostilità verso questi nuovi usurpatori, in gran parte di idee liberali. È naturale che la sommossa dei cosiddetti “cafoni”, per mantenere la sua forma insurrezionale, aveva bisogno dell'esistenza di una carenza di potere politico e militare nel territorio e, soprattutto, che l'impresa unitaria andasse verso un sostanziale fallimento. Quando, con l'intervento piemontese e con la successiva ripresa dell'offensiva militare da parte delle forze unitarie, questa prospettiva parve svanire, allora anche la ribellione contadina, che faceva riferimento al legittimismo borbonico, conobbe un periodo di stasi.
È con la crisi economica che colpisce il Sud, come fa notare il Molfese, che il moto contadino piglia vigore, saldandosi con quella particolare modalità dell'unificazione italiana che si può definire come “conquista regia”. E' in questo modo che il nuovo Stato si trova, nel Sud, privo di una solida base di consenso a cui cerca di ovviare puntando sul recupero dell'apparato dello stato borbonico, piuttosto che su quegli strati possidenti che sembravano maggiormente interessati e più disponibili ad appoggiarlo. Nei fatti, l'episodio più eclatante di questo atteggiamento è lo scioglimento dell'esercito borbonico che privò il governo di uno strumento importante di controllo e repressione nei confronti delle masse contadine, proprio in un momento delicato, come le primavere 1860-61, creando una massa di sbandati e delusi, disponibile a qualsiasi avventura, anche alla guerra per bande. Ha così inizio quello che fu definito il “grande brigantaggio”, che va dal 1861 al 1864, a cui lo stato riuscirà a venire a capo solo utilizzando lo strumento dello stato d'assedio e dell'occupazione militare, fatto questo che lasciò una traccia indelebile sia sul modo di gestire il potere da parte dei ceti dominanti, sia sul rapporto tra masse contadine del Sud e lo Stato nazionale, contribuendo al consolidamento di un blocco conservatore autoritario tra ceto politico di governo e gerarchia militare.
Le bande dei briganti, suddivise, di solito, in gruppi di cento, e qualche volta anche di 400 uomini, si spostavano prevalentemente a cavallo e costituivano la vera e propria forza d'urto del brigantaggio, mentre le piccole bande, al massimo qualche decina di uomini, operavano in aree circoscritte ed erano sempre pronte a mettersi a disposizione dei maggiori e più noti capi, badando però, sempre bene a non uscire da quello che era il proprio territorio, nel quale trovavano appoggi che certamente non avrebbero avuti altrove, e che conoscevano bene.
Quasi ogni regione del Mezzogiorno continentale avrebbe conosciuto questo fenomeno, sia pure in forme diverse, dalla Puglia al Molise, dalla Calabria alla Campania, anche se l'epicentro si mantenne sempre nella Basilicata, in quanto era la zona più centrale e in grado di fungere da rifugio sicuro e da via di comunicazione per le bande operanti altrove. Molfese, nel suo studio, ci fornisce delle cifre riguardanti 388 bande accertate, di consistenza variabile dalle 5-15 persone alle più di 100. Altri dati si possono ricavare dal numero dei briganti posti fuori combattimento nel periodo luglio 1861-dicembre 1865, cioè 13.853 uomini, numero, però, che è concentrato, per la quasi totalità, nei primi 18 mesi che vanno dal luglio 1861 al dicembre 1862 (11.822). Ciò senza contare le vittime civili il cui numero fu certamente elevato.
La nascita del “Grande brigantaggio”, nel periodo 1861-1864, coincide con il massimo sforzo compiuto dai legittimisti dentro e fuori il nuovo Stato unitario, e con la massima debolezza dello stesso. Che vi siano stati rapporti, sul piano politico, finanziario e militare, con la corte dei Borboni in esilio a Roma e con i grandi proprietari reazionari, è indubbio, così come appare chiaro il ruolo svolto dalla Chiesa nel fornire un'ideologia alle loro azioni. Tuttavia, appare superata la tesi degli storici di parte liberale che vedevano nel brigantaggio nient'altro che il braccio armato della reazione, come Antonio Lucarelli che considerava il brigantaggio poco più di una reazione di plebi immiserite e facilmente strumentalizzabili. Altri autori, portatori di una visione apologetica del successo unitario, hanno messo in rilievo (ancora una volta) la strumentalizzazione delle masse “plebee” operata dai reazionari, negando qualsiasi iniziativa alle masse contadine. E' significativo che, anche autori di tendenze filo-borboniche, come De Sivo, abbiano sostenuto tesi analoghe, limitandosi solo a rovesciare la scala di valori. Un testo importante a tal proposito, è “Il brigantaggio alla frontiere pontificia dal 1860 al 1864” di Alessandro Bianco di St. Jorioz, nel quale è possibile trovare abbondanti spunti analitici sulla situazione politico-sociale e nel quale è colta una certa dialettica tra contadini-briganti ed emissari legittimisti, cioè tra quelle bande nelle quali era prevalente lo stimolo della fede borbonica e quelle che avevano, invece, solo “lo stimolo di rubare”.
Assai utile, nella comprensione del mondo dei briganti-contadini è la discussa autobiografia di Carmine Crocco, uno dei capi-briganti più importante nel periodo preso in considerazione, ”Come divenni brigante”, scritta nel penitenziario di Santo Stefano, molti anni dopo la sua cattura. Molti hanno dubitato e continuano a dubitare sulla sua autenticità, ipotizzando, quanto meno, delle manipolazioni rilevanti nel testo, tuttavia esso rimane un documento assai interessante per quel che concerne sia l'itinerario percorso dal Crocco (e da tanti come lui) da contadino a soldato borbonico, a pregiudicato per reati comuni, a volontario garibaldino ed infine a brigante, che gli obiettivi e i progetti di quella parte dei brigantaggio, cosiddetto sociale, di cui fu uno dei maggiori esponenti.
Non va dimenticato, come ha messo in rilievo Enric J. Hobswan, che il brigantaggio è una forza di ribellione sociale endemica nelle società contadine, rivelatore di contraddizioni di classe, ma anche portatore, nella quasi totalità dei casi, di ipotesi politiche restauratrici. Non è un caso che lo stereotipo ideologico tipico del brigante, anche in situazioni storiche e sociali diverse, è il mito del sovrano giusto a cui compete la difesa dei poveri contro i ricchi sfruttatori. Se il brigantaggio è stato presente generalmente in tutte le funzioni sociali prevalentemente agrarie, esso si è trasformato in una vera e propria guerra sociale in quelle zone dell'Europa dove, a partire dal XVII secolo si era verificato un lento processo di ridistribuzione della proprietà della terra che aveva inciso, in maniera del tutto negativa, sulle condizioni degli strati più poveri dei contadini. A ciò, last but not least, per quel che concerne il Sud d'Italia, deve aggiungersi il vuoto di potere che si viene a creare durante le operazioni militari successive allo sbarco garibaldino, vuoto che si protrae per molti mesi a causa delle scelte politiche del governo di Torino, tra le quali lo scioglimento dell'esercito meridionale garibaldino.
L'elemento di fondo, per la liquidazione definitiva del movimento brigantesco va ricercato nella repressione sempre più pesante esercitata dallo Stato.
La scelta governativa favorevole al regime militare e allo stato d'assedio dovette fare i conti con le sinistre meridionali, espressioni di quegli strati contadini e si rivelò una scelta praticabile solo con la completa vittoria politica sull'opposizione democratica. La Destra doveva vincere la battaglia contro le bande solo ricorrendo alla politica del terrore contro le popolazioni delle campagne meridionali, mediante le leggi eccezionali. La tanto famosa legge Pica del 15 agosto 1863, rappresenta il turning point della politica repressiva.
Con essa, la guerra contro il brigantaggio fece un salto qualitativo rivelandosi lo strumento necessario per vincere. Più potere ai militari, fucilazione immediata senza processo per i briganti, pene severissime per i manutengoli: erano questi i punti essenziali di tale legge che, di fatto, abrogava nelle province meridionali la maggior parte dei diritti garantiti dallo Statuto Albertino. Le conseguenze di essa saranno un'ondata di arresti e fucilazioni che, più che sconfiggere militarmente il brigantaggio, lo priveranno di quella rete di appoggi, informazioni e complicità che costituivano il suo indispensabile supporto. La cattura dei principali capi, quali Crocco, Caruso, Romano, la dispersione delle grandi bande a cavallo, l'occupazione dei covi lucani, disarticolò il brigantaggio privandolo della sua organizzazione e della possibilità per le bande di unirsi e di sciogliersi, come era avvenuto nel passato.
Dopo il 1864-65, si parlerà ancora di brigantaggio, ma sarà solo di un fenomeno marginale, operato da piccole bande di pochi uomini che operavano a piedi, più simili al malandrinaggio endemico nelle campagne.
Il brigantaggio in Terra di Lavoro trovò un terreno favorevole nel boscoso Massico, pieno di grotte e popolato di “pagliai”, in grado, dunque, di servire da comodo rifugio da parte di pastori, carbonai, presto trasformati, per paura, per opportunità o per solidarietà, in manutengoli e confidenti. Nella valle, disseminata di masserie e di casolari era facile trovare provviste, suppellettili e capi di bestiame, oltre che ricchi possidenti ed agiati coloni da taglieggiare, quasi tutti ricattabili e proclivi alla rassegnazione ed al silenzio.
Un telegramma circolare del Prefetto della Provincia, spedito il 1 maggio del 1865, “Alle Autorità e Comandanti Guardia Nazionale e Carabinieri Reali”, lasciava intendere quale paura destassero in Terra di Lavoro, le imprese dei briganti. “Bande ladroni infami dirette dal territorio ancora soggetto Governo papale infestano nuovamente e coprono di misfatti nostra bella provincia… Ai ladroni, ai loro fautori, ai manutengoli è delitto lasciare più scampo. Guerra implacabile e sterminio!”
Tra le bande che operavano in questa zona vi era quella alla cui testa vi erano Domenico Fuoco e Francesco Tommasiello (Zoccolone) che si resero protagonisti, tra le altre imprese, di numerosi sequestri di persona.
Accenniamo, a mo' d'esempio, al sequestro effettuato dalla detta banda nella persona di un prete a Carano e di suo fratello, riportato nel bel testo di N. Borelli, ”Episodi del brigantaggio meridionale”, Perugia 1983.
La somma che si pretendeva dalla famiglia era di 80.000 ducati, mentre furono inviate solamente 700 piastre. La banda discese, quindi, attraversando il Massico, verso Falciano di Carinola e di là proseguì alla volta di Francolise, finché, procedendo a tappe forzate, non raggiunse le montagne di Mignano e Acquafondata. Qui, non vedendo soddisfatte le loro pretese, fecero recapitare al padre dei sequestrati la seguente lettera, scritta dai due fratelli.
“Caro padre, noi siano dei condannati a morte ed a Luigi per ora gli hanno tagliato una orecchia, noi siano legati notte e giorno, se non mandate ducati ventisettemila ci vediamo in Paradiso. 3 aprile 1864”.
In calce alla lettera, il capo brigante Fuoco, appose una sua annotazione che, pur nel rispetto formale verso l'interlocutore, che non è il padre, bensì lo zio, non è tuttavia meno dura e feroce: “D. Luigi caro, ho tagliato una orecchia a vostro nipote per farvi vedere che non scherzo… Credo che non restate soddisfatto, ma resterete quando avrete la testa dei due vicino alla vostra abitazione piantata sopra un palo.” Visto inutile il messaggio, il brigante inviò un'altra missiva: ”Stimatissimo Signore D. Leone, dopo di aver veduto l'esempio con l'orecchia tagliata a vostro nipote, nemmeno ci credete: Basta, solo vi mando il testamento di vostro figlio per porvi al sicuro verso gli altri parenti (quale gentilezza!)… (Don Lorenzo) è stato servito …con tre colpi di schioppo. A Don Luigi (l'altro fratello poi gli (lasceremo) altri due giorni onde venire i danari e se (non arriva) la detta somma sarà ammazzato.

Costantino Lauro
(da Il Sidicino - Anno VIII 2011 - n. 2 Febbraio)