Luigi Tansillo nasceva cinquecento anni fa a Venosa, “città cara a Bacco e ad Apollo”. Aveva solo dieci anni quando, passata la madre a seconde nozze, subiva un doloroso distacco dalla sua terra. Inizia da quel momento un lungo e tormentato cammino nel colto e raffinato ambiente della cultura napoletana che lo porterà a diventare uno dei maggiori poeti del suo secolo. Nutrito di tutto lo spirito innovativo del Rinascimento, da Michelangelo al Poliziano, Luigi, si ritrova, ancora giovane, ad avere come compagni di viaggio Giovanni Pontano, Iacopo Sannazzaro, Vittoria Colonna.
Intorno a loro si compone una ideale comunità letteraria che si pone l'ambizioso obiettivo di attualizzare la lezione petrarchesca per ridare profondità ed eleganza alla poesia e, attraverso di essa, restituire una cifra morale alta ad una società che era decaduta nell'adulazione cortigiana.
La vicenda umana di Tansillo si svolge in buona parte in quattro città: Nola, città della spensierata e irriverente giovinezza; Napoli, con la lunga, tumultuosa e avventurosa esperienza di consigliere del Vicerè Don Pedro de Toledo, di comandante di nave da guerra e di poeta di corte; Gaeta, dove trascorse i sette anni più tristi della sua esistenza, inadatto a disimpegnare il compito di Governatore della città affidatogli dal Vicerè; infine, Teano, città nella quale conobbe l'amore di Luisa Puccio e dove scelse di morire nel 1568.
Nel maggio del 1568, Luisa, Luigi e i loro cinque figli lasciano Gaeta per trasferirsi definitivamente a Teano. Questo che segue potrebbe essere il racconto immaginario, fatto direttamente dalla dolce Luisa, di quel viaggio e dei giorni successivi. I fatti raccontati sono realmente accaduti e tutti i personaggi sono realmente esistiti.
“È il maggio più bello della mia vita. Tutta Gaeta, anche il tetro Palazzo del Governo, questa mattina è inondata di una nuova luce. Il mare è fermo, immobile, si è calmata anche la tosse che ha squassato tutta la notte il petto di Luigi. E' finalmente arrivato il giorno tanto atteso. La carrozza è già pronta nel cortile. I nostri figli, Vincenza, Laura, Maria, Caterina e il tanto desiderato maschio, Mario Antonio, sono impazienti. Vogliono sapere a che ora arriveremo alla grande casa del nonno Pietro Paolo, vogliono correre tra gli ulivi e i castagni di Bagnonuovo, a due passi dalla sorgente di acqua ferrata.
Andiamo via da Gaeta, ci lasciamo alle spalle sette anni di sofferenza, sette anni di questa cupa fortezza militare dove l'animo di Luigi si è inaridito nel silenzio, dove la mia gioventù si è piegata alla tristezza.
Era l'agosto del 1561, quando Luigi accettò con la morte nel cuore la nomina a Governatore di Gaeta. In quel momento gli importava una sola cosa: fuggire dagli intriganti, i questuanti, i ruffiani, i “dottorelli” che avevano infestato la corte di Napoli. Con la morte di Don Pedro de Toledo, il Viceré di Napoli che l'aveva voluto al suo fianco come consigliere e uomo d'armi, si era spenta la grande stagione della felice vita di corte e, insieme, della fresca poesia giovanile. Un intero mondo in cui era trascorsa l'intera sua giovinezza era precipitato nell'insignificante vuoto del disincanto. I giardini di Chiaia, Castel Nuovo, il castello di Pozzuoli, l'Accademia dei Sereni, si erano tramutati di colpo in un ostile scenario di “forche e patiboli”.
Ma che errore accettare quell'incarico di governatore! Luigi non era fatto per giudicare le cause civili e criminali, per reprimere i tumulti che di continuo insanguinavano Gaeta. Per sette anni non ha fatto altro che delegare ai suoi luogotenenti il governo della città. Per due volte il Viceré ha cercato di revocargli l'incarico. Tutte e due le volte Luigi si è umiliato dinanzi al nuovo Viceré, il rozzo don Perefan, pur di tenersi stretta, per il decoro della sua famiglia, la rendita di cento ducati l'anno.
Mi sono adoperata con tutte le mie forze per convincerlo a lasciare Gaeta. Gli ho ricordato ogni giorno che mio padre non desiderava altro che accoglierci nella sua casa di Teano, diventata troppo grande per lui e per mia sorella Caterina; gli ho fatto leggere le lettere dove mio padre scriveva di volergli affidare l'amministrazione dei suoi beni; gli ho fatto balenare davanti agli occhi, vivido come in certi suoi poemi, il mondo di alberi, di colline, di profumi, di silenzi, che avremmo trovato a Teano; gli ho ricordato che l'aria della campagna, come dicevano i dottori, lo avrebbe restituito al vigore del corpo e, chissà, forse anche alla poesia.
E' da un anno che la salute di Luigi peggiora di giorno in giorno. Una violenta malattia catarrale gli spezza il respiro e gli ruba le forze. Un nostro amico, lo scrittore romano Scipione Ammirato, è venuto a Gaeta lo scorso mese di gennaio per farci visita. Quando l'ha visto, vecchio e sfibrato, il volto stanco che dichiara molto più dei suoi cinquantotto anni, mi ha quasi implorato: “Luisa, libera Tansillo da questo inferno”.
Nelle parole di Scipione ho letto una sincera preoccupazione per la sua salute. Sono stata invasa da un terribile sgomento, ho come avvertito il senso della fine, l'inutilità di ogni mia preghiera di fronte all'inesorabile corso delle cose.
Vorrei allontanare Luigi dall'ossessione che divora il suo spirito. Sono anni che lavora alle “Lagrime di San Pietro”, un'opera che io credo non vedrà mai il suo compimento. Sprofondato, tutte le ore del giorno e della notte, in un tormento senza tregua, scrive, cancella, arrotola i fogli, li strappa, riscrive, dimentico del sonno, del cibo, dell'amore.
La verità è che la sua penna non trova più le parole luminose, leggere, che un tempo gli avevano dato la fama di un nuovo Petrarca, fama che aveva fatto montare nell'Aretino un'invidia velenosa nei suoi confronti; la prolungata “mancanza d'ingegno”, come egli la chiama, ha tolto alle parole quell'incanto che aveva spinto il Tasso, il Rota, Giordano Bruno e persino l'eccelso Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte, a considerarlo poeta tra i più grandi del suo tempo. Le pagine delle Lagrime di San Pietro non sono altro che l'immagine dello smarrimento, dell'inaridimento del suo spirito.
Scipione Ammirato ha visto le dita di Luigi correre frenetiche e tremanti sui fogli. Gli ha chiesto di fermarsi, di pensare alla salute del corpo. Luigi gli ha risposto che doveva affrettarsi a portare a termine quell'opera grandiosa, perché a lei era affidata un'altra, ben più importante salute, quella dell'anima.
Il tormento di Luigi nasce da quell'ingenuo errore di tanti anni fa.
Erano gli anni della giovinezza, dell'irriverenza e della sfida, la mente colma della poesia di Orazio, come lui figlio di Venosa. Mi ha sempre raccontato che a quei tempi vagava felice nelle campagne di Nola, raccogliendo gli echi di antichi riti pagani ancora vivi nelle feste contadine.
Fu in quel tempo dell'incoscienza che pensò di comporre “il Vendemmiatore”, un poemetto scritto per prendersi gioco delle donne brutte, dei potenti, dei chierici e dei mercanti. Sulla scia della lezione poetica del Ficino, di Pico della Mirandola, di Lorenzo dei Medici aveva voluto ricordare a sé stesso e ai suoi amici che se era giusto “sperare nel futuro, in un'altra vita”, non bisognava per questo dimenticarsi di “godere del presente”. Doveva essere soltanto uno scherzo, una cosa da tenere per sé e da leggere agli amici poeti. Invece, a distanza di ventisette anni dalla sua pubblicazione, giunse terribile, mortale, l'iscrizione nell'Indice dei Libri Proibiti da parte del Tribunale dell'Inquisizione. La condanna non interessò soltanto il Vendemmiatore, fu mandata al rogo tutta la sua opera.
Da quel momento sulla vita di Luigi calò il terrore per il silenzio imposto alla sua voce di poeta, ma più ancora l'angoscia per la dannazione della sua anima. Tentò in tutti i modi di ottenere la cancellazione della condanna: chiese aiuto agli amici potenti, indirizzò a Papa Pio IV una commovente, struggente canzone, in cui pregava il Papa di lasciar vivere la magia delle parole che stavano rinchiuse nel suo petto e tentavano, “come augellin”, di uscire dal guscio per farsi poesia.
Giunse persino a rinnegare il suo mestiere di poeta:
“Peccai, me stesso accuso, a Dio rivolta
ho lingua e mano; ambedue tronche e secche
vorrei più tosto, ch'esser, qual già fui,
cagion talor d'obliqui esempi altrui”.
Forse il Papa restò commosso da quei versi sinceri, forse giunsero a segno le autorevoli raccomandazioni degli amici, fatto sta che la condanna fu ritirata e Luigi fu restituito al suo lavoro di poeta. Ma da quel momento nel cuore di Luigi il vuoto, la stanchezza, l'esaurimento degli ideali presero il posto della sfida, dell'esuberanza, dell'eleganza della parola.
Riparare a “quell'incauto figlio mal nato” divenne il suo unico, disperato assillo. Prese a scrivere “Le lagrime di San Pietro”, quest'opera senza fine, un peso immane di cui si fece carico per espiare il tradimento che egli, come Pietro, aveva fatto al Cristo.
Poco a poco l'errore, la sofferenza, il rimorso di Pietro scesero nel fondo della sua mente, divennero la sua insanabile pena.
A questa pena ho cercato in tutti questi anni di portare sollievo con il mio amore, con la mia discreta compagnia. Anche questa mattina, prima della partenza, sono scesa alla spiaggia, ho raccolto un cesto di conchiglie ancora bagnate dall'onda marina. L' ho portato in dono a Luigi, per lasciargli nel cuore il ricordo dei colori e del profumo del mare, il mare che stiamo per lasciare, per sempre.
Saremo a Teano questa sera, nella casa di mio padre. I ragazzi sono impazienti di abbracciare il nonno Pietro Paolo, vorrebbero che la carrozza volasse. Luigi, invece, ha pensato bene di fare una sosta a metà del viaggio, per far visita al suo amico Galeazzo Florimonte, il Vescovo di Sessa. E' un grande letterato, un uomo colto, è stato il Maestro di Monsignor Giovanni Della Casa. Certamente Luigi prenderà a parlare di Petrarca, certamente Monsignor Florimonte evocherà i versi che Luigi gli ha mandato in tante occasioni perché fossero cantati nel Pergamo della Cattedrale, rivestiti di una bella musica. In cuor suo, anche se non lo confessa a nessuno, Luigi sa che a Monsignor Florimonte deve molto. Ha capito da tempo che la sua cancellazione dall'Indice dei Libri Proibiti la deve all'intervento del Vescovo Florimonte presso il Papa, più che alla forza dei suoi versi.
Monsignor Florimonte ha celebrato il nostro matrimonio, in quel lontano dicembre del 1550. A lui devo anch'io grande riconoscenza: forse senza le sue parole la mia famiglia non avrebbe messo da parte la contrarietà alle nozze. I miei dicevano che Luigi aveva quaranta anni, e io venti; che Luigi era un nobile e importante consigliere di corte del Vicerè, mentre mio padre era un semplice possidente terriero; che Luigi era un poeta idolatrato in Italia e fuori d'Italia, mentre io ero soltanto una fanciulla di campagna. Ma così non era: per Luigi ero proprio il ritratto della moglie ideale, proprio come l'aveva disegnato pochi giorni prima del nostro incontro:
“Prima io vorrei che assai del bello avesse,
ed ella si pensasse d'esser brutta:
e brutta agli altri, e bella a me paresse.
Che fusse fatta con misura tutta,
né del picciol avesse né del grande,
né fusse grassa assai né troppo asciutta.
Che non le piaccia andare troppo in viaggio,
come da donne a Napoli oggi fassi,
né mi faccia del santo né del saggio.
Vorrei che di saper l'altre avanzasse
ma non avesse troppo de l'antico:
sta ben l'antico alle muraglie e ai sassi.
Oltre che avesse l'animo pudico,
e d'ogni tempo mi dicesse il vero,
vorrei ch'ella credesse ciò ch'io dico.
Il nostro primo incontro è avvenuto a casa di Gregorio Silvestro Caracciolo, un giovane nobile di Teano che aveva sposato la sorella di Luigi, Geronima.
Luigi era bello, alto, coi lunghi capelli biondi, i baffi arricciati e la mosca sotto il labbro. Aveva lo sguardo profondo dei poeti. Appena saputo del mio nome, ha voluto vedere un segno del destino nel fatto che ci chiamavamo allo stesso modo, Luigi e Luisa.
Quando ci siamo sposati, il Vicerè ci ha regalato un cavallo.
Tutti gli amici poeti, da tutta Italia, ci hanno fatto dono di una loro poesia, un bene ancora più prezioso. Il cavallo è rimasto nelle stalle di Castel Nuovo, le poesie sono qui, in una scatola d'argento, fanno il viaggio con noi, nella carrozza che sta a due passi da Teano.
A Teano siamo già stati lo scorso inverno per scegliere il posto dove costruire la nostra casa. Lo sguardo di Luigi si è subito fermato su di un pezzo di terra ricoperto di ulivi e castagni, poco lontano da una sorgente di acqua ferrosa, proprio vicino alla proprietà di mio padre.
È una piccola collina, alcuni la chiamano Gloriani, altri Bagnonuovo. Sembra proprio il luogo ideale dove trascorrere una serena vecchiaia.
Fra tre giorni, il dieci di questo mese, Luigi e mio padre andranno dal notaio De Grandis per stendere l'atto di acquisto. Ancora un anno e, se Dio vuole, i nostri cinque figli giocheranno al calore di una casa felice.
Potremo realizzare il sogno di una nuova vita, quella vita soltanto immaginata tanto tempo fa in una piccola poesia:
“Deh, sarà mai, pria che giù cada il fuso
degli anni miei, che ai piè d'una montagna
mi stia tra colti ed arbori rinchiuso,
e con la mia dolcissima compagna,
qual Adamo al buon tempo in Paradiso,
mi goda l'umil tetto e la campagna,
or seco a l'ombra, or sovra il prato assiso,
ora a diporto in questa e 'n quella parte,
temprando ogni mia cura col suo viso.”
E con le care figlie, e se il ciel vuole,
spero co' figli a tavola m'assida,
la state ai luoghi freschi, il verno al sole;
e di mia man fra loro porta e divida
l'uva e le poma; e s'io mi desti o corche,
con loro io mi trastulli, e scherzi e rida.”
Il sogno di Luigi è durato soltanto sei mesi, da maggio a novembre. L'inverno, rigido e piovoso, ha tolto l'ultimo vigore al suo respiro. I suoi amici letterati hanno fatto venire da Napoli i medici migliore, non è servito a nulla.
La fatica del parlare è andata aumentando di giorno in giorno, eppure dal letto dove giaceva ansimante, Luigi, testardo, gli occhi lucidi di febbre, insisteva a parlarmi dei rimpianti che fino all'ultimo hanno angustiato il suo cuore: l'opera che lasciava incompiuta, le Lagrime di San Pietro, la promessa fatta al Papa e non mantenuta; e, poi, dolorosa, insanabile, la nostalgia mai sopita per Venosa, la città dove era nato, il “natio mio nido”, la terra lontana e desiderata dove riposava la madre da cui era stato separato ad appena dieci anni.
La mattina del 29 novembre Luigi ha chiesto a mio padre di fare testamento, fintanto che fosse sano di mente. Quella sera stessa intorno al suo letto si sono raccolti il notaio De Grandis, il giudice Valentino Pulsitto e sette testimoni.
Lentamente, tra i sussulti sempre più intensi del petto, Luigi ha sistemato tutte le sue cose, prima quelle dell'anima, poi quelle della terra. Quando tutto sembrava ultimato, un ultimo, convulso pensiero ha fatto riaccendere una luce di angoscia negli occhi di Luigi.
Con tutte le forze rimastegli ha indicato il manoscritto delle Lagrime di San Pietro: deve essere affidato all'arbitrio del Vescovo di Nola e nessuno deve mettervi mano, ha ordinato a tutti presenti.
Subito dopo i suoi occhi hanno ritrovato la quiete.
Da ieri Luigi riposa nell'Annunziata, nella Cappella del Presepe. Ha voluto che fossi io a scegliere il posto della sua sepoltura. Mi ha raccomandato di esservi deposto di sera e con una sola luce.
A me, che ho conosciuto bene la sua fatica di vivere, il suo desiderio di quiete, di solitudine, è sembrato, quell'angolo notturno della Chiesa, il posto più adatto al suo desiderio di quiete.
Sono certa che Luigi è contento di essere stato abbracciato da questa tranquilla oscurità, sono sicura che nel cielo dei poeti ritroverà le parole che il dolore gli aveva fatto smarrire, che comporrà i sonetti più belli, per Luigi, e per Luisa.
Giuseppe Lacetera
(da Il Sidicino - Anno VII 2010 - n. 12 Dicembre) |