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"Due soldi di speranza" - Quando Teano incontrò il cinema

 

Cinquant’anni fa  una piccola storia di un piccolo personaggio teanese, raccontata in immagini da un grande regista, segnò una svolta, forse del tutto involontaria, nella storia del cinema italiano.
Tutto nacque dall’incontro casuale, a Roma, tra un giovane di Teano e Renato Castellani. L’evocazione fatta dal giovane di una intensa e tormentata esperienza di vita sviluppatasi sullo sfondo dei aspri scenari del dopoguerra, costellato di figure, caratteri, tipi che presentavano già di per sé una forte connotazione “cinematografica”, apparve al regista come una vicenda neorealistica che aspettava soltanto di essere raccontata. Anzi di raccontarsi da sola, come preferivano dire i “maestri” del neorealismo.
Sul soggetto steso dal regista lavorarono degli straordinari sceneggiatori (tra cui Titina De Filippo), che misero in piedi una trama che si sarebbe dovuta modellare sui più autentici capisaldi dell’ortodossia  neorealistica: racconto corale, forte presenza del contesto sociale, oscuramento del punto di vista del regista.
Renato Castellani venne a Teano con la sua equipe di tecnici per verificare sul campo i siti che gli erano stati descritti minuziosamente ed eseguire i sopralluoghi preliminari per le riprese. Per le insormontabili difficoltà logistiche incontrate, in modo particolare per l’impossibilità di alloggiare nella zona tutta la troupe, le riprese del film furono spostate nell’area vesuviana. Dovette tuttavia restare bene impressa nella memoria del regista la suggestione dei luoghi, tant’è che anche in posti così diversi fu attento a scegliere delle locazioni che ne riproducessero fedelmente le caratteristiche: Teano viene rinominata Cusano, ma sono facilmente leggibili i cancelli dell’Annunziata dove all’alba passano i “caporali” ad arruolare i disoccupati; sembra quasi una ricostruzione in studio la salita della ferrovia dove arrancano le carrozzelle che fanno la spola tra il paese e la stazione; c’è “l’anfiteatro” con la fabbrica dei fuochi di artificio; è richiamata una zia di Carmela che abita a sant’Antonio; la scena finale si svolge nel mercato uguale a quello che ancora oggi si tiene di sabato nel centro. E’, comunque, un gran peccato che le vie del paese e le campagne della Teano di cinquant’anni fa non siano rimaste per sempre a far da sfondo a una bellissima storia d’amore.
Antonio e Carmela sono i protagonisti del film. Dietro di loro si muovono due famiglie di diversa condizione sociale. Quella di Carmela, che gode di una relativa situazione di benessere per l’attività di produzione dei fuochi di artificio, guarda dall’alto quella di Antonio che gravita ai livelli più bassi del disagio del dopoguerra. Antonio le tenta tutte per conquistarsi un lavoro duraturo e mettere da parte il denaro per sposare Carmela. Fa il giardiniere e il sacrestano per un vecchio sacerdote che però lo licenzia quando scopre che di notte, per arrotondare la paga, se ne va in città ad affiggere i manifesti del Partito Comunista. Allora Antonio si inventa l’uomo che dà la spinta alle carrozzelle sul tratto più ripido della salita della stazione. Quando i vetturini vendono i loro cavalli per comprare la prima corriera che dovrà collegare il paese alla stazione, Antonio entra a far parte della cooperativa. Il prete non fa in tempo a benedire il mezzo già malandato che i soci si azzuffano e sfasciano la loro corriera. Il giovane si trasferisce a Napoli e trova lavoro come operatore cinematografico. Carmela viene informata che la padrona delle sale cinematografiche gli sta portando via il suo Antonio e corre a Napoli: in una tenerissima scena di gelosia lo convince a ritornare al paese nella sua desolante disoccupazione, ma vicino a lei. Per vendicarsi del padre che si ostina a proibire le nozze, Carmela dà fuoco a tutti i petardi che la fabbrica sta preparando per la festa del paese. Come un animale rabbioso e solitario, prende a correre per le campagne,  cantando e saltando.  A questo punto Antonio, stremato dalle vicende negative della sua vita ma vinto da questo  “amour fou” degno di Truffaut, compie un gesto che spezza tutte le convenzioni sociali e afferma le ragioni vitalistiche del sogno e della speranza: trascina Carmela nel mercato, la spoglia dei panni che la famiglia le ha dato, strappa dalle bancarelle i nuovi abiti per vestirla, grida a tutti  la certezza che il mondo cambierà se si dà ascolto alle ragioni del cuore “che l’ommo tene ‘mpietto”, porta  via  con sé una Carmela  che ritrova la pace tra i singhiozzi.
Due soldi di speranza” vinse in quell’anno la Palma d’Oro al festival di Cannes, divenne un caso e suscitò in Italia  un aspro dibattito che  divise la critica in due campi molto netti. Da una parte i detrattori, tutti quei critici ed intellettuali che avendo fornito idee, spunti e conferme all’ala più radicale della poetica neorealistica, lessero nel film un tradimento dei suoi caratteri più puri. A questi parve che il film non rispettasse i principi cardine cui si erano ispirati i vari Rossellini, Visconti, Zavattini, De Sica, De Santis: prevalenza dei temi sociali su quelli privati, rifiuto di ogni ricercatezza tecnica e formale, un modo di “girare” che annullasse la soggettività del regista fino a dare l’impressione che il film si costruisse da solo, la  rimozione di ogni visione ottimistica della vita. Fu proprio il superamento di questa rigorosa disciplina estetica e morale, che aveva segnato una stagione eccezionale della cinematografia italiana ma che ormai si avviava verso una fase di reiterazione manieristica, che venne elogiata dagli estimatori del film per l’arricchimento vitalistico e “sentimentale” che Castellani aveva immesso nel filone.
A distanza di tempo si può forse dire che si sono rivelate fondate le riserve che i detrattori avevano avanzato nell’individuare nel film un elegante canto di morte del neorealismo, un passaggio chiave che avrebbe portato alla sua dissoluzione. Occorre però dire che i presunti elementi involutivi che nel film  venivano rintracciati avevano avuto una lunga incubazione proprio nel laboratorio della ortodossia neorealistica. Basti pensare al “sentimentalismo” che pervade film come “Sciuscià” o “Umberto D.” di De Sica, all’impostazione melodrammatica di un film come “Senso” di Visconti, al forte rilievo dato alle vicende “personali” e psicologiche in film come “Bellissima”.
La verità, probabilmente, è che il neorealismo, nella radicale purezza con cui era stato teorizzato da Zavattini, è rimasto solo un esercizio programmatico  sistematicamente tradito nella pratica filmica dai registi che vi hanno aderito: lo stesso “La terra trema” di Visconti, forse il film che presenta la più dichiarata  pretesa di adesione mimetica alla realtà, con il suo grande affresco, intriso di dialetto,  di volti comuni presi dalla strada, si rivela alla fine una straordinaria ed elegante costruzione cinematografica fatta con gli occhi di un grande regista che sa scoprire la “magia” che è sempre sottesa ai fatti della vita quotidiana.
Di Visconti, Castellani era stato allievo e proprio ne “La terra trema” aveva lavorato come suo aiuto regista. E attraverso Visconti passano in Castellani le lezioni, ben evidenti a chi sa leggere con attenzione  “Due soldi di speranza”, di Marcel Carnè, di Renoir e di Renè Clair. Passando attraverso l’assimilazione di questi straordinari maestri, Castellani va a collocarsi su quel versante del neorealismo che privilegia la disciplina narrativa, il racconto stringente, e la ricerca di esiti formali che non siano fini a sé stessi.
Sono tracciati con una partecipazione emotiva i contorni umani di alcuni personaggi, come la sorella di Antonio – è magistrale la sequenza del suo grottesco matrimonio di convenienza con un vecchio benestante - ed il padre di Carmela, odioso nella cena delle beffe da lui organizzata per umiliare Antonio. Ma è in Carmela che Castellani trasfonde tutto l’amore che un regista può avere per una sua creatura.
Carmela (la stupenda Maria Fiore) è una delle figure femminili più belle del cinema italiano: sembra fatta di una aerea vitalità, corre senza mai fermarsi a piedi nudi per tutto il film, la sua voce in tutti i dialoghi è sempre spezzata dall’affanno della corsa, i suoi ritmi sono dettati dalla frenetica ricerca di un luogo dove il suo sogno possa affermarsi, di un punto da cui ripartire per dare una svolta alla sua esistenza, e quando alla fine, in un momento di resa, ferma la sua corsa tra i singhiozzi, arriva Antonio a rilanciare quello slancio vitale per una nuova corsa dettata dall’irrazionalità del cuore.

Giuseppe Lacetera
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 1 Gennaio)

 
La locandina del film