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Panta rei

 

Da anni ai tanti pensieri che mi si affollano prepotenti nella mente vado cercando di dare un ordine, supportandolo con la ricerca di un necessario metodo per catalogarli e concretizzarli in parole.
Non ho mai voluto esaminarne la giustezza o la possibile universalità, lasciando tali prospettive ai filosofi di professione; ma non per questo li ho mai giudicati insignificanti o non degni di una attenzione un po’ più ampia. Perché ogni uomo, entità unica, ed irripetibile nella sua unicità, nel corso della sua vita, che sia di venti o di cent’anni, riceve una quantità enorme di impulsi e segnali dal mondo esterno e dagli altri uomini, che gli consente, quasi sempre inconsciamente, di condurre una vita che, considerata in tutte le sue possibili accezioni e manifestazioni, è anch’essa assolutamente “unica”. A creare questa unicità è, alla fine, un invisibile filo conduttore che allinea e dirige tutti quegli infiniti impulsi che ha provveduto, volendo e, spesso, non volendo, ad elaborare, intrecciare, modificare, sommare o sottrarre, nella completezza del suo “io”, fatto di idealità e di fisicità.
Ne risulta, alla fine una entità che agisce e si confronta con altre infinite entità, senza nulla perdere della sua unicità; ed in essa, mi rendo conto, è difficile distinguere e tirar fuori l’inconscio “primum movens” che lo ha portato a compiere quell’azione anziché l’altra. Ma certamente in ognuno di noi esiste un patrimonio “esistenziale” che, questo sì, potrebbe essere esternato e generalizzato; un quid comune a tutta l’umanità e che è suscettibile di impensabili miglioramenti se solo ognuno volesse o riuscisse a trasmetterlo agli altri, per arricchirli nel pensiero e, di conseguenza, nelle azioni. Ogni uomo potrebbe allora mettere nero su bianco la sua parte “esistenziale” con grande vantaggio per tutti; sarebbe come fornire ad ognuno non un altro impulso, ma infiniti pacchetti di impulsi da assorbire, vagliare ed assimilare.
È questo e solo questo, in fondo, quello che vorrei fare, cercandone innanzitutto la capacità, perché della sua utilità sono più che convinto. Né questa rischierebbe di essere sminuita o contraffatta da eventuali diversità di vedute su quanto esposto, perché questo sarebbe semplicemente il frutto di una unità ed unicità. Da confrontare, sì, ma non da censurare pregiudizialmente.
La ricerca non può non partire che da una assunto filosofico di oltre duemila anni, motto esplicativo e riassuntivo del pensiero di Protagora di Abdera (486 – 411 a. C.) : “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Un percorso di pensiero che nei fatti negava la eventuale esistenza di verità oggettive ed assolute che potessero essere conosciute da tutti, e da tutti allo stesso modo. Erano nate, con lui, la sofistica ed il relativismo. Di verità assolute avrebbero potuto anche esisterne, ma comunque le diversità nascenti nel loro riconoscimento da parte dell’uomo avrebbero vanificato il loro essere assolute.
Su queste idee i filosofi hanno sempre dibattuto molto, ad iniziare dal fatto di cosa si potesse intendere, secondo Protagora, per uomo: se il singolo individuo, per il quale la realtà oggettiva appariva diversa da come appariva ad un altro uomo, o se la parola vada interpretata in senso più lato, come “comunità”, “appartenenza ad una categoria” che spinge ogni uomo a vedere le cose secondo i principi della categoria a cui appartiene e che appaiono diverse ad altri che le osservassero secondo altri principi.
Le due argomentazioni non sono contraddittorie, perché anche le seconde, assieme a tante altre, contribuiscono a formare il metro di misurazione di ogni uomo.
Dato per acclarato questo principio, e senza negare, per chi volesse crederci, la esistenza di verità assolute, perché non è a questo che tendo, ne scaturisce la importanza di ogni singolo nell’elaborare punti di vista e conclusioni, idee e prospettive, pensieri ed atteggiamenti i quali, per la loro sola eventuale unicità, non potrebbero che essere di stimolo e di ampliamento di ogni conoscenza. Sicuramente non propongo una novità: in fondo ogni autore di saggi, di romanzi, di scritti scientifici o di fantasia, non fa altro che questo: proporre una sua personale visione ed un suo modo di sentire, non per donare certezza di giudizio, ma per affinare, nel lettore, le capacità di usare ed ampliare i parametri della sua “misura”.
Ma se tanti altri, e con imparagonabile maestria, tipo Montaigne, lo hanno fatto, che senso avrebbe che a farlo ci provassimo un poco tutti, pur nella nostra limitatezza di studi?
Gli è che noi stiamo affrontando una materia mutevolissima nel tempo, nello spazio, nell’evoluzione umana, nella sua mentalità, mai uguale a se stessa, pur se questo non costituisce aspetto negativo. Anzi è di stimolo per continuare ed accentuare la diffusione di esperienze cognitive e di giudizio approfondite direi quasi giorno per giorno. Anche le cose naturali, che possono apparire immutabili, non lo sono attraverso la lente della “misura” di ogni singolo uomo: è paradigmatica la espressione, circolata a mo’ di tormentone, “non esistono più le quattro stagioni”. Ma possiamo affermarlo con sicura certezza, nel momento in cui ogni individuo può avvertire il caldo o il freddo diversamente da un altro, o non ha memoria sufficiente per ricordare che qualche variazione atmosferica non ortodossa non si sia verificata infinite altre volte nella esistenza del nostro pianeta?
Un uomo di oggi è completamente diverso, forse anche fisicamente, dall’uomo di cinquant’anni fa, giusto per non andare lontano nel tempo; ha interessi, pensieri, prospettive diverse, si comporta diversamente di fronte alle stesse occasioni o difficoltà, e sicuramente anche queste sono cambiate nella sostanza come nell’apparenza. Che siano più grandi o meno, non importa: sono semplicemente diverse perché diverso è il contesto nel quale nascono e si manifestano, e diversamente vengono “misurate” dall’uomo che non è più quello di prima.
Ed il collegamento con Eraclito di Efeso (535 – 475 a. C.), filosofo precedente Protagora, sorge spontaneo quando, spiegando il suo aforisma “panta rei” (tutto scorre) afferma che “non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa della impetuosità e della velocità del mutamento, essa si disperde e si raccoglie, viene e va”.
Ma chi ha toccato quell’acqua prima di noi può descriverci com’era e trasmetterci non un dato passato ed inutile, ma qualcosa da ri-attualizzare al fine di affinare conoscenze, scremandole dei parametri derivanti da una “misura” diversa dalla nostra, e certamente utili per migliorare. Individualmente e socialmente.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XIX 2022 - n. 10 Ottobre)