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Tu vuo' fa' l'americano...

(... o l'inglese?)
 

Mentre mi accingo a scrivere le poche righe di quest'articolo mi giunge, attraverso il televisore, la voce pacata e ferma, priva di ogni fanatico entusiasmo, del Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Tra le altre cose, per inciso, invita gli italiani a limitarsi nell'uso dei termini inglesi, dando corpo ad una aspettativa che da anni freme nella mente di quanti hanno a cuore la propria identità di popolo.; ed io tra questi.
Non è la prima volta che ne parliamo, non per “sovranismo”, nuova etichetta creata ed usata a spregio di quanti non sono “progressisti di sinistra”, ma solo e soltanto perché la nostra lingua continua a rimanere, classicamente parlando, la terza al mondo, dopo il greco ad il latino.
Sua diretta progenitrice la “favella toscana” ricordata e lodata dal Carducci nella sua ode “Davanti San Guido”:
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
Come un sirventese del trecento, piena di forza e di soavità! Delicatissime pennellate per ricordare tutte le sfumature di una lingua che fu di Dante e di una infinita lista di poeti, di scrittori, di parolieri, ed anche di scienziati.
Quanto contrasto con quel che scrisse, al riguardo dell'inglese, il poeta tedesco Heinriche Heine (1797/1856) nella sua opera “Notti fiorentine”:
- Otto anni or sono andai a Londra per conoscere quella lingua e quel popolo. Che il diavolo si porti il popolo con tutta la sua lingua! Si cacciano in bocca una dozzina di monosillabi, li masticano, li spiaccicano, li risputano e questo chiaman parlare”-
Perché rinunciare al colore ed alla forma del bello per una essenzialità della lingua anglosassone che non ci appartiene, che non è nelle nostre corde, che non si addice al nostro modo di essere e di pensare? Per comodità? Per brevità?
Vi sembra allora che miriamo alla comodità ed alla brevità quando, per anni di becero “progressismo”, abbiamo cominciato ad usare tre o quattro parole per esprimere un concetto racchiuso da sempre in una ed una sola parola? Non più “grave” o “gravissimo”, ma “codice rosso” o “codice giallo”; non più “spazzino” ma “operatore ecologico”; non più “infermiere” ma “operatore socio sanitario”! Per brevità, quando sugli spartiti di tutto il mondo i tempi musicali sono scritti in italiano: “allegro”, “allegretto”, “adagio”, “andante con moto”?
La nostra estrosa esterofilia, e direi la nostra esuberante emulazione del peggio, ci porta continuamente a tradire le nostre radici, dissimulando con le parole straniere o con stupidi eufemismi la vera sostanza delle cose; come se cambiando le parole mutassimo le condizioni! Stolti!
A conferma di quanto esposto, mentre con attenzione seguivo le brevi parole al riguardo, che finalmente una delle nostre massime autorità politiche aveva il coraggio di pronunciare, mi tornava in mente lo sceneggiato televisivo trasmesso la sera precedete e dedicato alla vita di quel grandissimo musicista che fu Renato Carosone, apprezzato davvero in tutto il mondo per le sue canzoni ed il suo stile musicale “afro-napoletano” , precursore di anni di quello di Pino Daniele.
E mi ronzavano nelle orecchie le parole di una delle sue più simpatiche canzoni, idolatrata proprio in America: “Tu vuò fa' l'americano”.
A tutti gli “anglofoni per imitazione” cos'altro potrei dire se non:
“quann' se fa' l'ammore sott' a luna, comme te vene ncap' e dì I love you”?
Ma non solo allora, naturalmente!

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XVIII 2021 - n. 3 Marzo)