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Indice Claudio Gliottone
 
 

Oggi parliamo di DAT

 
alias Disposizioni Anticipate di Trattamento
 
Premetto: non prendetemi troppo sul serio.
 

Esporrò delle limature concettuali che a molti appariranno inutili o al più superflue, ad altri degne di attenzione. E questo per il naturale realizzarsi di quella legge cosmica per la quale nulla in natura è rettilineo, ma sempre circolare o sinusoidale; si passa cioè sempre e continuamente da un apice all'altro: dal giorno alla notte, dalle glaciazioni alle desertificazioni, dal caldo al freddo, dalla luce al buio.
Espongo i fatti.
Qualche giorno fa il Senato ha definitivamente approvata la legge sul testamento biologico (già questa definizione non ha granché di logico) che porta il titolo di “Norme in materia di consenso informato e disposizioni di trattamento” e che, dall'acronimo di queste tre ultime parole e in ossequio alla dilagante mania delle sigle, viene simpaticamente chiamata “Dat”.
In buona sostanza si prende atto che un individuo abbia anche il diritto di disporre della sua salute e della sua vita e gli si riconosce la possibilità di scegliere tra il prolungamento delle sue sofferenze terminali (accanimento terapeutico) e l'accettazione del decorso naturale della malattia di cui soffre.
Lo Stato invadente, clericale e di sinistra, ci concede ora, assieme alla già concessa “facoltà di non rispondere”, anche la facoltà di morire come cacchio ci pare. E gli siamo riconoscenti.
Elaboro qualche riflessione.
Innanzi tutto il fatto che le due “concessioni statali” nascono dalla perdita di vista di un piccolissimo dettaglio: “la naturalità” degli argomenti cui esse si riferiscono. Se io non voglio rispondere ai giudici o a chicchessia mi basta “non parlare”; il farlo o il non farlo appartengono a me e solamente a me; non me lo deve concedere nessuno, a meno che, come ci ricordano i tristissimi “auto da fè”, la autorità non mi induce con mezzi assolutamente innaturali (tortura fisica o psicologica) a fare il contrario di quello che io voglio fare.
Così, se io voglio accettare la “soluzione naturale” della mia malattia, non devo averne il consenso da nessuno, soprattutto perché la mia decisione non lede alcun bene pubblico. Così la somma scienza della Medicina non può costringermi a vivere male, ma solo a vivere!
E qui si affacciano altri due concetti.
Il motto fondamentale della Medicina, da Ippocrate a qualche tempo fa, prima dell'era “bionica”, è sempre stato “primum: non nocère; secundum: lenire dolorem”, pima non creare altri danni al paziente e poi lenirgli le sofferenze. Ma mai nessun medico ha concepito l'idea che la medicina dovesse far vivere chiunque all'infinito; sarebbe un andar contro natura, e se crediamo in Dio o nelle Parche che hanno stabilito per ciascuno un proprio periodo di presenza vitale non possiamo non condividere questo concetto. Si comprenderà facilmente che le mie osservazioni si riferiscono solo ai casi in cui per “prolungare la vita” si disattende il postulato del “lenire dolorem”, e l'accanimento terapeutico è rivolto solamente a questo, a far respirare il soggetto, a fargli battere il cuore e a nutrirlo con tutti i moderni artifizi necessari.
Quanto sopra nasce, ovviamente, da un'altra considerazione sulla quale dobbiamo soffermarci: su che cosa è realmente la vita, e non su cosa si intende per vita.
Schiere di filosofi, di teologi e di biologi hanno speso fiumi di inchiostro per venirne a capo; non mi illudo io, così poco dotto e illuminato, di farlo.
Si pone però una necessaria distinzione: tra vita intesa nell'esclusivo concetto “biologico”, cioè la vita in senso lato, quella comparsa sulla terra non stiamo ad indagare se per creazione o per abiogenesi, comune a noi, agli animali, alle piante, e la vita personale, individuale, svolta nei contesti sociali e ad essi rivolta, arricchita giorno per giorno da infinite sfaccettature fisiche e morali, di pensiero, di sentimento, di partecipazione, quella che potremmo definire nobilitata dal possesso della coscienza o dell'anima, chiamatela come volete.
La prima appartiene al mondo, e non morirà mai, perché possiede in sé quel divino dono di rigenerarsi sempre in vecchie o in nuove forme, e di prescindere da ogni umano intervento.
La seconda è più fragile perché appartiene al singolo, all'individuo, al suo essere o essere stato, e non è necessario, per scomparire, che a quell'individuo gli si fermi il cuore. Può finire molto prima, perché la sua componente più importante non è “biologica”, ma “umana” e “sovrumana” ad un tempo.
In virtù del mio mestiere ho avuto modo di osservare il declino fisico, e non sempre patologico, di centinaia di persone; per molte di loro, anche senza oggettive alterazioni di salute, la sofferenza era rappresentata dalla semplice senescenza, che ne ottundeva quasi tutte le capacità; a quante persone ho sentito dire, convinte, “ma perché il Padreterno non mi si chiama?”. Lenire il loro dolore non era meno prioritario del lenire quello di affetti da patologie serie ed invalidanti, ma riusciva forse più difficile. E quando le une e le altre entravano in uno stato irreversibile di incoscienza premonitrice della fine, era lecito intervenire per tentare di salvaguardare nient'altro che la sopravvivenza biologica? Può una legge morale adattarsi ai progressi scientifici nati appunto dalla scienza pura e semplice, senza coinvolgimento alcuno di quell'anima o coscienza alla quale non bisognerebbe mai smettere di guardare?
Ho visto uomini e donne ultraottantenni ridotte a vegetali, pieni di tubi e tubicini per mettere e per togliere, nutriti con sacche di liquidi biancastri e in continua somministrazione di ossigeno; era quello davvero un trionfo della scienza? O era piuttosto il risultato di un perverso meccanismo che costringeva a far pulsare un cuore, magari solo perché fonte di reddito pensionistico o perché il rimorso di un figlio vissuto lontano per una vita intera esigeva che il genitore fosse ancora un presumibile vivo?
Mi fermo qui per questioni di spazio.
Ma non posso interrompere il discorso; c'è ancora tantissimo da dire.
Azzarderei una ipotesi: chiederei ai lettori di dire la loro opinione scrivendo alla mail del giornale [ilsidicino@libero.it] oppure alla mia personale [claudiogliottone@libero.it].
Potrebbe nascerne qualcosa di buono di cui continuare a parlare.
Alla prossima puntata.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XIV 2017 - n. 12 Dicembre)