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Gossip risorgimentale a proposito dell'incontro di Teano

 

Non presenta sopimento, tra Teano e Vairano, la annosa questione dell'Incontro. Pur convinti delle inutilità della battaglia, che va ormai snocciolandosi tra incontri, dibattiti ed iniziative di marcato provincialismo non destinate a cambiar nulla per il presente e per il futuro, ci piace intervenire a proposito dell'ultima iniziativa di Vairano di voler aprire un altisonante “Museo del Risorgimento” nei locali di quella “Taverna Catena” che fu a suo dire il luogo dell'incontro tra il Re e Garibaldi.
Ma non lo faremo per contestare; solo per apportare qualche nuovo elemento al giudizio dei comuni cittadini che vivono la cosa con naturale e comprensibile indifferenza. Rileggo “Il Risorgimento italiano”, di Denis Mack Smith (prima edizione 1968, ultima 2011, per i tipi della Laterza): un'opera eccezionale nella quale l'autore, dopo ampia prefazione per illustrare come vanno letti e contestualmente interpretati, propone una serie enorme di documenti ufficiali, di lettere, di interventi parlamentari, di rapporti di polizia, di scambi epistolari, di scritti di tanti personaggi politici, storici, economisti, del mondo letterario italiano ed internazionale. Il tutto per far comprendere come l'Unità d'Italia sia stato il frutto di un coinvolgimento il più ampio pensabile e non risolvibile in mera questione territoriale: un momento storico di spessore internazionale, a leggere il quale ci si rende conto di come, alla fine, siano stati parimenti importanti sia i giocatori che le pedine, e ci si chiede anche se non siano state tutte pedine di un inarrestabile progredire della Storia, per chi crede nel suo fatalismo!
A pagina 481 delle edizione del 2011 Mack Smith riporta, col titolo “Il Re e Garibaldi a Teano”, uno stralcio del libro “La camicia rossa” scritto da Alberto Mario nel 1862. Alberto Mario (1825-1883) partecipò ai Moti del Risorgimento e combatté con i Mille; poi si dedicò ad una intensa attività di giornalista, ma sempre da un punto molto critico, per lui radicale e mazziniano, nei confronti del Regno d'Italia. Il libro fu scritto nel 1862, a ridosso del compimento dell'impresa garibaldina e due anni prima di quello scritto da Cesare Abba: sicuramente i ricordi del primo erano più nitidi.
Ne riportiamo qualche brano.
- Il re, coll'assisa di generale, in berretto, montava una cavallo arabo storno, e lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori…….. Di sotto al cappellino Garibaldi s'era acconciato il fazzoletto di seta, annodandoselo al mento per proteggere le orecchie e le tempia dalla mattutina umidità. All'arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo: “oh, vi saluto, mio caro Garibaldi: come state?” E Garibaldi: “Bene, Maestà, e lei?” E il re: “Benone!” . Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi come chi parla alle turbe, gridò: “Ecco il re d'Italia!” E i circostanti: “Viva il re!”
- Vittorio Emanuele, trattosi in disparte pel libero transito delle truppe, s'intrattenne qualche tempo a colloquio col generale. Postomi in istudio vicino ad ambedue, ero vago d'intendere per la prima volta come parlino i re, e di avverare se all'altissimo grado corrisponda l'altezza dell'ingegno e del pensiero. La situazione era epica: suolo campano e Capua a poca ora; grandi ombre di consoli romani e di Annibale; incontro degli eserciti di Castelfidardo e di Maddaloni; vigilia della battaglia,; contatto della camicia rossa e della porpora; d'un principe ricevitore e d'un popolano datore di una corona; trasformazione d'un regolo in re d'Italia.
- Sua Maestà favellò del buon tempo e delle cattive strade, intercalando le considerazioni con rauchi richiami e con alcune ceffate al nobile corsiero irrequieto. Indi si mosse.
- Garibaldi gli cavalcava alla sinistra; e a venti passi di distanza il quartier generale garibaldino alla rinfusa col sardo… senonché, immezzo alla vanità di queste umane grandezze sorgeva in atto benigno e vestita di realtà l'idea di una buona colazione che i regi cuochi precorsero ad imbandirci presso Teano.
- In tanto strepito d'armi e corruscare di spallini e ondeggiare di cimieri, i contadini accorrevano attoniti ad acclamare Garibaldi. Dei due che precedevano, ignorando quale ei fosse, posero con certezza gli occhi sul più bello. Garibaldi procacciava di deviare quegli applausi sul re, e, trattenuto d'un passo il cavallo, inculcava loro con molta intensità d'espressione: “Ecco Vittorio Emanuele, il re, il nostro re, il re d'Italia; viva lui!”
- I paesani tacevano e ascoltavano, ma non comprendendo sillaba di tutto ciò ripicchiavano “Viva Galibardo!”. Il povero generale alla tortura sudava sangue dagli occhi, e conoscendo come il principe tenesse alla ovazioni e quanto la popolarità propria lo irritasse, avrebbe volentieri regalato un secondo regno pur di strappare da quegli antipolitici villani un “Viva il re d'Italia” anche un semplice “Viva il re!”. Ma la difficoltà si sciolse prontamente, perché Vittorio Emanuele spinse il cavallo al galoppo.
- Tutti noi si galoppò dietro, e con noi Farini, il quale, agguantata la testa della sella, curava poco le redini e meno le staffe, e ad ogni movimento della bestia  le brache aggroppavasigli alla volta delle ginocchia. Per buona sorte il re, oltrepassati i villani, si rimise al passo e il suo ministro restò in arcione, calò le brache, rassettò la tunica, raddrizzò il berretto, asciugò il sudore e riatteggiossi decorosamente.
- Al ponte di un torrentello che tocca Teano Garibaldi fece di cappello al re; questi proseguì sulla strada suburbana, quegli passò il ponte e separaronsi l'un l'altro ad angolo retto.
La scorrevole e quasi dissacrante prosa di Alberto Mario, che assiste all'incontro e lo fa con sentimento mazziniano (quindi repubblicano) e radicale, dà il resoconto perfetto di un avvenimento che forse al momento passò come un semplice fatto di guerra, un incontro tra eserciti alleati in una campagna d'armi. Che non fosse solo così lo si comprese forse dopo e ne iniziò quella che oggi si direbbe “promozione”. Il re e Garibaldi, che pure erano a conclusione di un evento importantissimo, che aveva con diverse traversie ed avventure improntato tutta la loro vita, pare siano i primi a non rendersene conto e parlano invece “del buon tempo e delle cattive strade” intercalando il discorso con “rauchi richiami e ceffate al nobile corsiero irrequieto”. Non una parola di politica. Alberto Mario si era messo accanto a loro proprio perché “vago d'intendere come parlano i re e di avverare se all'altissimo grado corrisponda l'altezza dell'ingegno e del pensiero”, ma ne rimane deluso. È solo lui a comprendere che “la situazione era epica” e che in un territorio vicino a Capua, dove si erano affrontati Annibale e i Romani avveniva, ad opera di un “popolano datore di una corona la trasformazione d'un regolo in re d'Italia”.
Bonariamente ridicolo Farini, il viceré di Napoli in pectore, già designato da Cavour, quando il re scatta al galoppo ed egli vive un momento drammatico aggrappandosi alla sella, mentre le brache gli si aggrovigliano alle gambe: passaggio dalla battaglia alla politica, e Farini, come tanti altri al seguito del re, era avverso a Garibaldi “a codesto plebeo donatore di regni”.
Ridimensioniamo tutto, d'accordo. Ma si pensi che si era a metà del 1800 e la mentalità generale era tanto diversa dall'attuale. Ma non mettiamo in dubbio che il tutto, per buona o cattiva sorte, avvenne qui, a Teano, dove i “regi cuochi precorsero per imbandire” una buona colazione, e dove, “ al ponte di un torrentello che tocca Teano” i due personaggi si separarono, compiuta la loro missione.

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno XII 2015 - n. 7 Luglio)