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C'era una volta... La festa patronale

 

Si sentivano nell'aria già molti giorni prima.
Se ne parlava con l'aspettativa dei grandi avvenimenti, forse perché venivano a scuotere la ruotinaria vita del paese, forse perché ci consentivano delle scappatelle più facili da realizzare, forse perché erano veramente belle: le feste patronali e quelle dedicate ai santi protettori dei vari rioni e frazioni cittadine.
L'addobbo di luminarie era ed è ancora una costante fissa; iniziava almeno una settimana prima della festa con quei paIi sempre debitamente blu e poi tanti archi luminosi e disegni vari di fiori, di nastri, di coccarde, di fontane. Siii, la fontana luminosa con le luci in movimento che davano l'impressione di tanta acqua che cadesse giù dal cielo, e le ruote che giravano tutt'attorno in uno sfavillante luccichio che si perdeva lungo le affollate vie del corso. Era la festa di S. Paride, quella patronale, preceduta dalla fiera del bestiame e conclusa dall'incendio del campanile.
La gente per strada era tanta che passeggiare diveniva un'impresa lungo le strade rese sempre più strette dalle decine di bancarelle di torrone, e nocciole americane (a sostegno dell'impero economico del presidente americano Carter) e mandorle glassate, e giocattoli, e palloni gonfiati ad elio che pareva ci prendessero gusto a scappare di mano ai bambini. Li seguivamo con lo sguardo sempre più in alto, in alto, in alto e ci chiedevamo con Renato Rascel dove mai andassero a finire.
ln quelle sere ci era consentito di ritirarci più tardi, persino a mezzanotte, ed era una delle cose più belle della festa. Non che si facesse granché, ma ci si cominaciava a sentire grandi, e tanto bastava. ll clou della festa era costituito dal "concertino" che si teneva l'ultima sera, di solito il 6 agosto, e, a seguire dall' incendio del campanile.
L'aspettativa per gli artisti era grande, e derivava dal desiderio di vedere dal vivo quei personaggi che la televisione. ormai diffusasi in ogni casa, ci mostrava nei suoi spettacoli: appartenevano per lo più al mondo napoletano, Nunzio Gallo, Sergio Bruni, Gloria Cristian, e su tutti il grande Peppino di Capri.
Due sere prima toccava, allora come ora, e son passati cinquant'anni, alla musica classica eseguita da rinomate bande della tradizione abruzzese e pugliese; ad ascoltarla non più di trenta affezionati. Potrei citarveli tutti per nome e cognome, ma oramai saranno solo una decina.
A mezzanotte tutti lontano per assistere all'incendio del campanile, in tradizione fino al 1962, e sospeso dopo che la terrà tremò. Lo avevo di fronte a me, lo vedevo dal mio letto a non più di trenta metri, quel gigantesco campanile dell'Annunziata, maledetta calamita d'ogni vero teanese, simbolo di appartenenza si, ma, ahimè, mai di unione.
I fuochi cominciavano dal basso, salendo lenti lungo i costoni, mentre dalle finestre partivano via i petardi che si alzavano alti nel cielo e poi i bengala che cambiavano colore, giallo, e poi rosso e poi rosso più vivo fin sulla cupola e dalla torretta si levavano per ultimo le tre "botte allo scuro" che decretavano la fine ad uno dello spettacolo e della festa.
Restava tanta malinconia, come per tutte le "domeniche" del villaggio.
Il I3 giugno, invece, toccava a Sant'Antonio, nel santuario sulla collina, difficile da raggiungere perché la strada ancora non era asfaltata e si levavano nugoli di polvere ad ogni passo.
Anche qui c'era la fiera del bestiame ed era più famosa e frequentata di quella di S.Paride. Si teneva nella cosiddetta "pratuscia", un vallone poi riempito dagli incalzanti rifiuti e portato a livello della strada per Casamostra; nel mezzo una vecchia fattoria che si trasformava in tavema per l'occasione. Cavalli, buoi, maiali, pecore, invadevano tutto lo spazio ed il mercato era fiorente e frequentato da gente di tutto il circondario. Certo non esistevano gli acquisti via internet!
ln questa festa le luminarie erano poche e rade, le bancarelle si illuminavano con lampade ad acetilene che lasciavano uno sgradevole puzzo.
Il pezzo forte, oltre alle noccioline americane, era costituito dal “pesce marinato" che nel parlar popolare era chiamato "pesce marinaro", quasi che esistesse anche un pesce montanaro. La commerciale porchetta non apparteneva alla nostra tradizione. E poi le pagliette ed i cesti di vimini.
Una visita al Santo era d'obbligo, anche per noi spensierati bambini. Spensierati fino ad un certo punto
perché la festa cadeva in un periodo scolastico tragico: le scuole si chiudevano al 15 di giugno e l'esito del giudizio era terribilmente incerto. Bastava a rovinarci al festa, ed allora una provvidenziale raccomandazione al Santo valeva a tranquillizzarci quanto bastava.
Dalla collina si scendeva per una scorciatoia, allora ancora un polveroso tratturo, che era scelta come posteggio da una schiera sempre ahimè troppo folta di questuanti: storpi di ogni tipo, zoppi, ciechi, menomati facevano ala alla gente che veniva giù dalla festa e che nel passare li riempiva di polvere e di sporcizia.
Mi veniva da piangere, per la pietà, certo, ma anche per un po' di paura (avevo sì e no dodici anni, ma erano quelli dei primissimi anni sessanta).
Ricordi d'infanzia, di un passato travolto troppo in fretta da ineluttabili cambiamenti di vita e di costume, non saprei dire se di miglioramento.
La maturità sta forse nell'accettarli senza giudicarli. Lo spettacolo continua .... !

Claudio Gliottone
(da Il Sidicino - Anno I 2004 - n. 6 Giugno)