L'atto registra una sorta di resa della città di fronte alle numerose istanze dei Terzieri, i deputati accettano tutta una serie di richieste di tipo economico, senza probabilmente esercitare molta opposizione (27). I Terzieri vorrebbero, con in testa quello di Cascano che si conferma come il regista della rivolta, addirittura la separazione, ma si rendono conto che questo potrebbero non ottenerlo e si contentano di avere una serie di libertà economiche. Questo desiderio di separazione si estrinseca persino nel rifiuto di quello che potrebbe essere considerato un onore, cioè di affiancare il Governatore alla fiera di S. Maria in Grotta nel feudo di Toraldo, e neanche il Bannera cioè il Capitano delle fiere di Sessa di quella di S. Pietro e quella dell'Annunziata.
Un capitolo vuole la conferma della libertà e la concessione della grazia ai carcerati fatti fuggire dal castello, durante la giornata di rivolta. I deputati sono costretti anche a promettere di tenere esenti i terzieri e i feudi e anche il popolo della città dal pagamento dei debiti attrassati e che questi siano pagati in pratica dalle classi dei maggiorenti della città. Probabilmente si tratta proprio del debito di 50.000 ducati che la città donò al suo duca Consalvo II. Un altro capitolo riguarda il Demanio che si dovrà vendere senza la porzione di Montagna che si dovrà appaltare a parte.
Da notare la presenza di due rappresentanti del popolo della città, una presenza che testimonia la presenza di un partito popolare che si differenzia dalla città e dal suo consiglio. I due rappresentanti sono espressione di un ceto con una certa capacità economica sia i Barbaro che i Prata sono nel corso del secolo più volte appaltatori di imposte comunali.
Il 28 di luglio insorge Carinola contro gli amministratori e gli appaltatori di imposte (28).
In questa occasione è probabile che sia stato assaltato e depredato anche il palazzo vescovile. Il vescovo Cavaselice in una sua Relazione ad limina del 1648, parla lamentando che a causa delle rivoluzioni non solo ho perso tutto il patrimonio, ma anche i redditi ecclesiastici, e la stessa casa vescovile e tutte le suppellettili a causa dei ladri compagni di Papone con grandissimo pericolo della mia vita per ben due volte (29).
Nel periodo che intercorre tra il 15 e la data della riunione nel castello, anche la città di Sessa deve essere passata dalla parte dei popolari. Infatti essa viene numerata tra le città popolari e antispagnole in un decreto di Gennaro Annese (30).
Scrive il Capecelatro: (29 luglio) venne avviso lo stesso giorno essersi sollevata Carinola e venuta a contrasto con Laurenzo di Sessa che la teneva ad affitto dal Principe di Stigliano, il quale avendo condotta molta gente in suo ajuto, vi era successa morte di molte persone e furono per veri misfatti da loto commessi, alcuni condotti in galea dai popolari, in luogo de'birri, acciò non succedesse tumulto e fossero tolti di mano della giustizia.
Secondo il Castaldo, Pietro avuta la notizia della rivolta di Carinola e più precisamente come vedremo poi a Casanova dove era stato ucciso un giudice della città di Capua che per caso si trovava lì, e anche probabilmente di possibili danni alle sue proprietà, arma una squadra di uomini e anche con l'aiuto di gente armata del principe di Stigliano si dirige verso Carinola. Qui il tumulto popolare aveva liberato anche tutti i prigionieri detenuti a vario titolo nel carcere del castello ed erano stati selvaggiamente trucidati dal popolo una serie di gabellotti e loro manutengoli, persone sempre invise.
Anche il Capecelatro, notoriamente antipopolare, è costretto ad ammettere che la loro morte era giustificata in qualche modo dai misfatti da loro commessi.
Diverge di poco la versione che riporta Tommaso de Masi che scrive su Pietro di Lorenzo: prese l'armi nel 1648 per il Re per vendicarsi di alcuni malviventi di Casanova casale della città di Carinola che, coll'occasione di quelle rivoluzioni gli devastavano i beni, da lui colà posseduti, toccando tamburro e col seguito di 200 persone armate marciò contro di essi ed avendogli superati con ammazzarne molti, portò in Sessa quasi in trionfo la testa un tal Giovanni Prata loro capo e non pochi prigionieri (31).
Pietro di Lorenzo riesce a domare la rivolta ma si comporta con eccessiva violenza.
Il Castaldo riferisce che uccise sette ribelli e mozzata la testa a tale Giovanni Prata (che non si tratti di un parente del deputato popolare di Sessa?) la innalza su una picca e sfila insieme ai ribelli catturati per le vie della città di Carinola.
Riesce a convincere a questo punto gli stessi tumultuanti a ricatturare i peggiori criminali e a rimetterli in galera, cosa che anche Capecelatro sembra accettare.
Nei fatti sanguinosi è ucciso anche un sacerdote di nome Francesco Sasso da parte degli uomini di Pietro di Lorenzo.
Da Napoli però una forte colonna di popolari viene inviata in soccorso della città di Carinola. A questo punto Pietro fugge e ripara nello Stato del Papa, lasciando il nipote Erasmo a presidiare Carinola. Erasmo viene preso prigioniero e condotto a Napoli.
I popolari provocano notevoli danni nelle proprietà di Pietro, che ammonteranno secondo successive ricostruzioni di parte, a circa 60.000 ducati.
La versione dei fatti riferita dal De Masi è un po' più favorevole a Pietro, i popolari sono ridotti al rango di malviventi, non si parla della fuga e della prigionia di Erasmo, ma si conferma secondo me la vicinanza del Prata con il deputato sesssano.
Domenico Colessa
Scrive efficacemente Pierluigi Rovito: una storia militare della Serenissima Real Repubblica è ancora tutta da scrivere, attraverso una guerra per bande efficacissima e basata sulla mobilità e sulla padronanza del territorio, questi improvvisati condottieri di un esercito raccogliticcio riuscirono a fronteggiare le milizie lealiste peraltro anch'esse raffazzonate e guidate da nobili dilaniati da vecchie e nuove beghe (32).
E ancora: a vedere il percorso di personaggi concluso il più delle volte su un patibolo, quella del 1647 fu anche una storia di equivoci e divisioni più evidenti nelle città maggiori in genere con un'ampia corte di casali, dove interagiscono diversi fattori di crisi: tensioni di ceto per la serrata dei Seggi nobili…. i contrasti delle élites locali….. in conflitti tra le fazioni della nobiltà….. l'infeudazione dei casali (33).
Non sono molti i comandanti popolari di cui si è conservata notizia. Tra questi Ippolito di Pastena della campagna di Eboli e Giffoni il quale muove con 2000 uomini verso Salerno saccheggiandola (34). Ancora il Piacente nota Paolo di Napoli, vassallo del Principe di Avellino ex cavallaro, che emulando la fortuna del Pastena che era di condizione forse più vile di lui, fattosi capo di 4000 persone radunate piuttosto a suono di campana che di tamburo per li villaggi insieme alla gente di Sebastiano di Bartolo, capopopolo di Lauro, prese Avellino e la saccheggiò (35).
A scorrere i profili di questi improvvisati comandanti, essi sembrano tutti uguali, il loro ritratto è scritto magistralmente da Hobsbawm: essi sono fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall'autorità statale ma che pure restano all'interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio (36).
Tra tutti però spicca la figura di Domenico Colessa, conosciuto con il soprannome di Papone, il vero Masaniello di Terra di Lavoro. Scrive il Castaldo: Papone è sicuramente tra i più notevoli e interessanti capi rivoluzionari al servizio del Duca di Guisa…. Ardimento, forza d'animo e capacità di comando, per aver arruolato e avuto ai suoi ordini sinanco novemila uomini, cifra ragguardevole in questi conflitti, condotta e strategia di guerra, per aver operato al confine col richiamarvi tutti i rivoluzionari e antispagnoli dello stato limitrofo e per aver riportato commendevoli successi bellici, fierezza e rapida decisione delle cose ne fanno uno di quegli uomini che il successo avrebbe elevato ai posti della storia e l'insuccesso non permette comunque di lasciare nell'oblio (37).
Gli spagnoli lo chiamano con terrore el bandido, ma il soprannome di Papone ha un che di affettuoso, come se i suoi uomini lo vedessero come un padre saggio e premuroso. Inoltre egli aveva anche una sorta di giustificazione diplomatica, il duca di Guisa, nel suo tentativo di impadronirsi del regno di Napoli, reclamandone il diritto come erede di Renato d'Angiò, protagonista di quella che è comunemente definita la terza fase della repubblica napoletana, gli concesse una regolare patente con il grado di colonnello e la facoltà di nominare suoi luogotenenti e ufficiali, gli aveva dato alcuni nobili in qualità di suoi subordinati, come nel caso dei fratelli D'Arezzo, che erano nipoti di un cardinale.
Domenico Aloisio era nato nella frazione di Caprile, uno dei tre piccoli casali che compongono la terra di Roccasecca, il 29 settembre del 1607.
I genitori però erano del vicino borgo di Castrocielo. Si conosce il certificato di battesimo per vie traverse, non essendo più disponibile il Liber baptizatorum originale. Lo storico Geremia de Geremei, congiunto del marchese Giuseppe Amato scrive che aveva rinvenuto tra le carte del suo parente una dichiarazione giurata del parroco della parrocchia di Caprile, don Bernardo Notarangelo nella quale riporta la data di nascita di Papone (38).
Il Piacente di lui dice: nacque nella terra di Roccasecca quanto umile di natali tanto povero di beni di fortuna, impiegò i primi anni dell'età sua sì nella custodia degli armenti come nella coltura dei campi. Indi postosi in armi per cagione di misfatti poco onorati si rese, con la recidiva di nuove colpe, siffattamente di perdono incapace che disperando di conseguirlo non fu misfatto che non commettesse (39).
Lo stesso ripete il Capecelatro: di vilissima sorte in un Casal di Roccasecca, un leit motiv (40). Sposò una Margherita Mancino anch'essa di Roccasecca. Uomo di vile e spiacevole aspetto, senza barba, nero di pelo e fosco di carnagione e pareva appunto un facchino, questa è la descrizione che ne fa il Capecelatro.
Non differisce di molto la descrizione che ne fa il d'Onofrio. Era alto di corpo più che di giusta misura, occhio nero e grosso e rotondo ed alquanto in fuori come il rospo, fronte spaziosa, color piombino bruno, capelli neri e lunghi, spaventoso in vista, sembrando con la presenza la rustichezza dei suoi natali.
Da Caprile si sposta in seguito in S. Giovanni Incarico, dove lo troviamo nel 1646 come riferisce Pasquale Cayro che riporta il certificato di battesimo del figlio di Domenico (41). Colessa, prosegue Cayro, si era ritirato ad abitare in S. Giovanni Incarico prima della rivolta per sfuggire alla giustizia napoletana, profittando del particolare stato di questo centro che apparteneva al duca Farnese. Al tempo in cui Cayro scrive, nel salir il monte della Guardia chiamato esisteva una dirutta icona o sia cappelletta e si appella Cappella Papone ed ha dato il nome alla contrada.
Secondo il Castaldo da giovane Domenico lavorava come guardiano di capre per i frati di Montecassino, poi fu birro e caporale di birri dell'Auditore di Campagna Dante Olivadisio. Venuto in urto con questo, fu denunziato di aver commesso soprusi e ruberie e infine rinchiuso nel carcere di Santa Maria d'Agnone in Napoli.
Il carcere di S. Maria in Agnone era riservato solitamente ad accogliere i giudicati dal Tribunale di Campagna.
Tommaso de Santis ne fa un semplice guardiano di mandrie (42), ma tutto ciò non basta a coprire i 40 anni circa che dividono il certificato di nascita dalle prime notizie certe, nel 1646.
Sempre il Piacente lo descrive come un giovane di spiriti elevati ed ambizioso di dominio maggiore ma tutto ciò sembra solo un espediente letterario.
Sia come sia, la vita del giovane Colessa sfugge ad ogni investigazione, mancando la possibilità di verificare le notizie che di lui parlano.
Sembra plausibile però che sia stato un dipendente del Tribunale di Campagna, un birro insomma e che abbia fatto anche carriera, finendo come caporale in questa sorta di piccolo corpo di polizia itinerante che era sovente protagonista di vere e proprie grassazioni a carico delle popolazioni dei piccoli borghi che incontrava sul proprio cammino. Mi sembra credibile anche che il suo carattere da bravaccio abbia alla fine provocato la denunzia da parte dei suoi superiori.
Domenico per sfuggire all'arresto si rifugia in S. Giovanni Incarico ma alla fine viene raggiunto lo stesso dalla giustizia e rinchiuso a Napoli nel carcere di S. Maria Agnone. Probabilmente i suoi reati non si allontanavano molto dall'abuso di autorità, o da piccole malversazioni a carico del popolo minuto, cosa che oggi non farebbe scandalizzare nessuno, essendo normale costume dei birri comunali, o come si dice oggi vigili urbani, di fare la spesa gratis anche oggi.
Proprio la destinazione in questo carcere nel quale erano detenuti i condannati dal Tribunale di Campagna sembra però escludere che egli avesse commesso delitti più gravi come alcuni vogliono ritenere. Altrimenti sarebbe stato rinchiuso nel carcere della Vicaria, da cui poi non sarebbe neanche uscito, perché in conseguenza della rivolta, mentre vengono aperti e fatti fuggire i detenuti nei carceri minori, sono esclusi quelli della Vicaria.
Uscito così fortunosamente dal carcere, Colessa che fa? Se ne torna al suo paesello, in famiglia e si mette tranquillo, senza farsi immediatamente conquistare dai turbinosi avvenimenti che si svolgevano sotto i suoi occhi. Ha l'animo del birro comunque e forse non si fida troppo del popolaccio che vede in preda ad ogni sorta di eccesso, travolgere ogni forma di autorità. Di lui non sentiamo parlare per diverso tempo fino alla fine dell'estate del 1647.
Secondo quanto riferisce il Diario di Capecelatro: liberato, gitone al suo paese, raunato buon numero di masnadieri e rubatori di strada cominciò, conforme era suo uso, ad infestare la campagna, ma rotta poscia la guerra accresciuto di seguito e di nome e prese sue patenti dall'Annese e da guisa non più scherano, ma capo stimato de'popolani (43).
Diversa la versione fornita da Castaldo che forse legge dal diario del Guisa: liberato dal carcere, lui dopo essere stato nascosto per qualche tempo si porta a Roma, offrendo i suoi servigi all'ambasciatore francese marchese di Fontenay e poi in seguito al duca di Guisa.
Di certo ottiene dal duca di Guisa una patente con la quale può assoldare gente d'arme e anche delle istruzioni scritte sulla strategia da seguirsi nel tentativo di impadronirsi del Regno, istruzioni eguali a quelle impartite agli ufficiali francesi. Il Guisa inoltre gli concede il titolo di colonnello.
Le notizie fornite dal Capecelatro sulla costituzione di una banda con la quale si dà alla campagna come bandito nell'estate del 1647 sono destituite di fondamento e prive di testimonianze.
Colessa in un primo tempo si rifugia presso i suoi, subito dopo la liberazione dal carcere, poi in seguito comincia a comprendere che la sommossa si avvia a diventare una vera rivoluzione e fa la sua scelta di campo.
Il giorno 15 di novembre si trova al fianco del Guisa al momento del suo sbarco a Napoli. Di qui inizia la storia certa delle sue azioni. Partecipa alle prime azioni del Guisa, insieme ai nobili D'Arezzo provoca la sollevazione e l'occupazione di Secondigliano, come testimoniano le Memorie stesse del Guisa.
Il giorno dopo solleva e occupa Giugliano e qui il feudatario del luogo, Inico Palma, passa armi e bagagli dalla parte del Guisa che proprio a Giugliano fissa il suo quartier generale, mentre il grosso delle truppe spagnole al comando di Vincenzo Tuttavilla si concentrano ad Aversa.
A questo punto il Colessa insieme con il Guisa concepisce un piano ardito e strategicamente efficace, se riuscito. Conoscendo molto bene il territorio immagina di prendere Sessa, poi attraverso il territorio di Mondragone si sarebbe mantenuto in contatto con il quartier generale. Da Sessa avrebbe diretto le forze dei D'Arezzo sulla costa verso Fondi, mentre egli si sarebbe diretto alla conquista di Teano e soltanto dopo, avendo fatto crollare questa linea di difesa, tutti insieme sarebbero andati alla presa di Capua.
Inoltre attraverso le montagne sarebbero stati in collegamento con gli Abruzzi, Avellino e Salerno che già si erano sollevati contro gli spagnoli. Tutto il piano sarebbe stato attuato entro il Natale del 1647.
Immediatamente inizia le prime mosse con i d'Arezzo che a capo delle loro forze occupano Itri, Fondi e Sperlonga. Secondo il Piacente, Fondi venne fatta arrendere dal suo feudatario che impose ciò al suo capitano Francesco Inglese.
Resta indietro come sempre la fortezza di Gaeta, il Guisa fa promettere la somma di 100.000 doppie al suo comandante ma la somma non viene corrisposta e la fortezza non si arrende.
Papone invece inizia dalle parti sue. Il 7 dicembre, come testimonia il Capecelatro, lascia la compagnia e corre a Roccasecca a difesa delle sue cose e dei suoi parenti che son minacciati dalla gente del duca di Sora (44).
Entra in Sora e anche qui apre le carceri e compie una strage di quelli che si opponevano, instaurando il governo a nome del Guisa.
Poi si muove alla conquista prima di Galluccio, Tora e Conca, le prende, apre le prigioni, arruola armati, uccide i riluttanti ad accettare il nuovo stato di cose, e si dirige subito verso Roccamonfina.
Il 9 dicembre giunge nella terra di Galluccio, ove tratta a se la divozione del popolo, usò maniere guari dolci e civili per maggiormente disporre alle sue voglie la povera gente. Ed avendo obbligate l'altre terre di Conca, Tora e simili a dargli il beneplacito, così riferisce il Perrotta (45).
Roccamonfina il 13 dicembre non cede, precipita, vi si istituisce un governo popolare presieduto da un commissario, probabilmente Claudio de Rivera.
Si ordina alla popolazione di Roccamonfina che tutti tengano le armi alle mani pronte al servizio del popolo, dall'età di 12 anni in su. Intanto si registra una contromossa da parte spagnola. Il giorno 12 l'esercito al comando di Andrea Francesco di Capua, principe di Roccaromana, esce da Aversa, con 70 fanti e 130 cavalli cercando di congiungere le forze con quelle del duca di Sora che avrebbero tentato di passare il Garigliano.
Arditamente Papone, avutane notizia, sospende la spedizione verso Sessa, marcia con i suoi nel pomeriggio del 13 e per tutta la notte e all'alba del 14 si trova sul Garigliano e occupa il passo con molta gente armata, impedendo così il ricongiungimeno delle due formazioni spagnole. Lasciato un presidio sul passo del Garigliano, si dirige con il resto delle sue forze verso Sessa.
La testimonianza del Perrotta dice che: ne venne con gran furia su Sessa ove ne fu con gran perdita de' suoi ributtato. Per lo che montato in rabbia diede il guasto alla sessana campagna, predando e bruciando anche le ville. Onde vedendo ciò i sessani per distoglierlo dai danni maggiori si resero di buon accordo.
Secondo il Piacente, Sessa si arrende per l'inclinazione di alcuni plebei che accennarono una sommossa. Ci soccorre a questo punto la nostra cronaca ms. A la quale nota, intanto che la città viene presa già il giorno 12: il bandito Domenico Colessi alias Papone della Terra di Roccaseccha qualificandosi Capitano Generale della Repubblica di Napoli unitosi con altri banditi fu chiamato alla Terra di Sipicciano e Galluccio e unitosi alli altri paesani e roccolani al numero di 400 venne in Sessa dove trovò tutti li Casali a sua divozione e tutti uniti assediarono Sessa con minacciare di tagliare cerqui, oliveti e pigliare bestiami con terrore cominciarono, che presero porci e bacche che fu costretta alli 12 de dicembre 1647 darse in potere di detto Papone e se ne impadronì con altri in nome del popolo di Napoli con farne istrumento della resa e patto fatto da notar Francesco di Capua con molti Capitoli (46).
Sulla data la nostra Cronaca sicuramente sbaglia, infatti anche il Capecelatro pone la presa di Sessa nel giorno 20 dicembre, accordandosi quindi con le date del Perrotta.
La cosa importante però che la Cronaca ci fa conoscere è che quando Papone si dirige alla volta di Sessa, trova la gente dei Casali e specialmente quelli di Cascano pronti a sostenerlo anche con le armi.
Sulle prime la città si difende, magari anche soltanto chiudendo le porte e sparacchiando qualche colpo. Così la massa di armati che l'assedia può minacciare di tagliare gli alberi di ulivo e le viti nelle campagne attorno la città e intanto si impadronisce di bestie per il vitto dei numerosi armati.
Sicuramente all'interno della città esiste un partito popolare che accenna ad un'insurrezione in favore degli assedianti. Questo mette la città nella situazione difficile di non poter difendersi sotto la minaccia di nemici sia esterni che interni.
A questo punto decide per la resa. Si chiama il notaio Giovan Francesco di Capua, che in questo momento è il notaio più importante della città e si stende un atto di formale resa della città all'armata di Papone che ne prende possesso in nome del duca di Guisa e della Repubblica napoletana.
Nella città di Sessa si depongono i sindaci e viene instaurato un governo popolare. Dice il Castaldo che questo governo è confusionario e disordinato al punto da non poter redigere neanche atti pubblici.
Cita a questo proposito una lettera esortatoria al Vicerè del Vescovo di Sessa, il quale si lamenta che in quel tempo non era possibile stipulare un atto di compravendita e non v'era autorità civile, ma solo militare e annonaria. Questo però è almeno opinabile, l'atto di resa della città fu steso da un notaio che presumibilmente resta in città.
A tale proposito notiamo che nei Protocolli di questo notaio, depositati presso l'Archivio di Stato di Caserta, manca stranamente proprio il protocollo dell'anno 1647, mentre poi proseguono i protocolli con l'anno 1648 e fino al 1656.
In Sessa, continua la Cronaca ms. A, resedevano da cento persone di guardia ed il cancelliere Francesco Volpone che attendevano a far denari e strage.
Presa la città di Sessa l'armata popolare si dirige verso Teano. Il comandante lealista Vincenzo Tuttavilla teme che anche Teano possa cadere nelle mani di Papone e ordina ai duchi di Vairano, Marzano e Castelnuovo di portarsi in difesa di Teano già in data 19 dicembre con 50 cavalli per rinforzare la città, ma qui arrivano solo 40 persone del duca d'Atri e il barone di Ailano, poca roba.
Quei duchi a stento sono in grado di difendere le loro terre e alcuni pensano anche al tradimento. Così infatti fa il duca di Vairano Mormile e poi anche il cognato Giovan Battista del Balzo, barone di Presenzano.
Papone il 23 già si trova sotto le mura di Teano e intima la resa alla città. Il governatore della città Ottavio del Pezzo non intende in nessun modo arrendersi e resiste, Papone temporeggia senza dare l'assalto. Ottavio del Pezzo era stato nominato governatore sia per il suo feudo di Caianello che per quello della Marchesella nel territorio di Carinola. Per i suoi servizi nel 1650 otterrà il titolo di marchese.
Il comandante Vincenzo Tuttavilla invece di attaccare Papone tenta di guadagnarlo alla causa regia con offerte di denaro, ma Papone rifiuta, anzi taglia l'acquedotto che porta l'acqua a Teano da Roccamonfina.
Il tentativo di Tuttavilla secondo la cronaca del De Santis viene portato avanti attraverso l'opera del capitano Pietro di Lorenzo, rientrato intanto dalle terre pontificie e in forza presso l'esercito regio, anzi nominato capitano del battaglione di Teano (47).
Questi si adopera presso il suo amico intrinseco Giovan Battista Festa cancelliere del Papone. I due si incontrano, trattano in qualche maniera ma senza nessun risultato. Naturalmente si tratta di Giovan Battista Testa appartenente a una famiglia cospicua del Casale di Cascano, che già abbiamo conosciuto, ma che si tratti di un amico è discutibile.
Due luogotenenti di Papone, Giulio Cesare Marotta e Giovanni Antonio di Nardo conquistano Calvi, Pietramelara, Vairano e Marzano e altre terre minori.
All'assedio di Teano Papone ha condotto una forza di circa 8000 uomini che i suoi luogotenenti hanno arruolato nei vari centri conquistati Roccamonfina, Sessa, Calvi, Carinola, Torre di Francolise, Pietramelara, Vairano, Conca, Tora, Galluccio, Marzano (48). Si prepara l'assalto, il campo popolare è stato posto nel convento sulla collina di S. Antonio nei pressi della città. Papone invia un cappuccino in città chiedendo di arrendersi senza violenza e con un secondo frate poi la minaccia di incendiare vigne e castagneti nelle campagne e ville.
Seguiamo qui il resoconto che fa Benedetto Pezzulli storico teanese, molto più preciso e dettagliato della cronaca del Perrotta (49).
La città di Teano si chiude nelle sue mura. Il governatore Ottavio del Pezzo convoca un Pubblico Parlamento, il popolo si dichiara pronto alla difesa. Si arma, perfino il clero prende le armi, si forma così un corpo di difensori di ben 800 uomini, divisi in quattro compagnie, si nominano quattro capitani uno per ogni porta della città, tranne quella di S. Nazario che viene fabbricata.
A Bartolomeo D'Angelo viene assegnata la difesa della porta della Rua, a Giulio Barattuccio quella di S. Maria la Nova, ma deve anche difendere le alture della Palombara, dove forse si trova una stazione di posta, mediante piccioni viaggiatori, a Giuseppe Galluccio viene affidata la difesa della porta del Vescovato, mentre la porta di Marzo (chiamata così perché è rivolta verso Marzano) o di Settecannelle, dal nome della famosa fontana, è difesa da Luigi Martino des Carles.
Tutti sono nominati capitani dal Governatore con regolare patente. Papone allora a dimostrazione ed esempio del danno che ha minacciato e di ciò che la città avrebbe potuto subire ordina l'incendio della chiesa di S. Antonio Abate al Borgo e quindi avanza verso la porta della Rua o porta Napoli.
Qui si fortifica innalzando delle barricate, sotto la pioggia di colpi di moschetto cui viene fatto segno dai difensori della porta. Intanto il comandante Tuttavilla da Capua avuta la notizia dell'assedio di Teano aveva spedito in soccorso un piccolo contingente di 100 cavalli e altrettanti fanti al comando del signor Zattera.
Quando i teanesi scorgono l'arrivo dei rinforzi che vengono dalla strada di Torricella, operano una sortita di armati che escono dalla Porta Rua al comando di Giuseppe Galluccio. Papone si trova preso tra due fuochi e si ritira con il grosso dei suoi uomini sulla montagna che si trova sulla strada per Sessa. Intanto le forse realiste ben organizzate fanno strage dei popolari, prendendo anche molti prigionieri. Molti fuggono a nascondersi nelle caverne sulle colline vicine.
A questo punto Zattera e Galluccio fortificano il borgo di S. Antonio fuori la porta della città e Zattera la sera porta le sue truppe a Calvi. Il giorno dopo di buonora Zattera conduce le sue truppe, dirigendosi verso la Torre di Francolise, impedendo così a Papone di ritirarvisi e questi incalzato dai teanesi, lascia gran parte del bagaglio e si dirige verso Sessa.
(fine IV parte)
NOTE
(27) Anche questo atteggiamento remissivo e vigliacco in fondo è una caratteristica della città di Sessa. Ricordo soltanto la riunione del Consiglio Comunale dove si decise la separazione con il costituendo comune di Cellole. E poi sempre sotto il ricatto della presenza della folla indistinta e ingovermabile tutta una serie di atti comunali dal no alla Centrale a turbogas metano, alla discarica della Selva, alla pianta del personale del nuovo ospedale. Tutte delibere nelle quali con l'eccezione di qualcuno, la folla impose una sua visione.
(28) CASTALDO V., I tentativi di indipendenza(..), cit.
(29) BRODELLA A., Storia della diocesi di Carinola, Minturno, Caramanica, 2005, p. 134.
(30) CAPECELATRO F., Diario di Francesco Capecelatro contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-50, Napoli, Stabilimento Tip. di Gaetano Nobile, 1850, I, p. 135.
(31) DE MASI T., Memorie istoriche(..), cit. p. 239.
(32) ROVITO P., Il viceregno spagnolo di Napoli (..), cit. p. 356.
(33) Ivi, p. 349.
(34) PIACENTE G. B., La rivoluzione del Regno di Napoli negli anni 1647-48 di Gio. Battista Piacente dettata nel 1648-49 la quale per la prima volta viene messa in luce sul manoscritto che Bartolomeo Lipari trascriveva nell'anno 1786, Napoli, Tipografia di Giuseppe Guerrero, 1861, p. 241 e sgg.
(35) Ivi, p. 246.
(36) HOBSBAWM E. J., I banditi, cit., p. 11.
(37) Castaldo V., I tentativi di indipendenza (..), cit.
(38) cfr. RICCARDI F., Il brigante Papone, Roccasecca, tip. Arte Stampa, 1995. GEREMIA DE' GEREMEI, Nascita e gesta di Papone, in La lega del bene, a. VI, n. 21, 1891. Il certificato attesta: io qui sottoscritto arciprete curato di Caprile Bernardo Notarangelo di aver perquisito il libro dei battezzati di questa parrocchia di Santa Maria delle Grazie e di aver ritrovato che “a di 30 di settembre 1607 fu battezzato da me don Luca Roccano curato di santa Maria in Caprile lo figlio nato dal legittimo matrimonio da Hortentio Colesso e da Valentina di Domenico della villa di Palazzolo, il quale nacque il 29 del detto mese e li compari furono Domenico Antonio D'Arcangelo di Gio. Carlo et Felice sua madre tutti di Arpino e gli posero il nome di Domenico”. E per essere questa la verità ne rilascio il presente scritto, soscritto di propria mano nonché munito del mio parrocchiale sigillo. Caprile 19 settembre 1863, il parroco Bernardo Notarangelo.
(39) PIACENTE G. B., Le rivoluzioni (..), cit. p. 366 e sgg.
(40) CAPECELATRO F., Diario(..), cit. II, p. 306.
(41) CAYRO P., Storia sacra e profana d'Aquino e sua diocesi del sig. Pasquale Cayro, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1808, I, p. 289: nel Libro battesimale di S. Giovanni Battista di San Giovanni Incarico p. 35 tergo Anno domini 1646 die 4 mensis martii, ego Theodorus Scorti (parroco) baptizavi infantem natum dicto die ex Dominico Colessa et ex Margarita Mancino di Roccasecca, huius uxore cui impositum est nomen Franciscus, patrini fuerunt Thomas et Felicita de Aquino dictae terrae.
(42) DE SANTIS T., Storia del tumulto di Napoli, Trieste, Colombo Coen Tip. Editore, 1858, p. 116.
(43) CAPECELATRO F., Diario(..), cit. II, p. 306.
(44) CAPECELATRO F., Diario (..), cit., II, p. 313.
(45) PERROTTA G., La sede degli aurunci popoli antichissimi dell'Italia. Storiografia della loro antica città Aurunca e della vice Aurunca Roccamonfina. In Napoli, per Giuseppe Severini, 1737, pp. 131-40.
(46) GIUSTI P., Cenni di cronistoria sessana (..), cit.; DI MARCO G., Il mistero di una cronaca manoscritta, cit.
(47) DE SANTIS T., Storia del tumulto (..), cit. p. 137.
(48) DE SANTIS T., Storia del tumulto (..), cit. p. 143.
(49) PEZZULLI B., Breve discorso storico della città di Tiano Sidicino in Provincia di Terra di Lavoro. Anticamente detta Campagna Ausonia e ne mezzi tempi la Campagna Felice nel Regno di Napoli, in Napoli, presso Raffaele Miranda, 1820, pp 227 e sgg. Giampiero Di Marco
(da Il Sidicino - Anno XVI 2019 - n. 7 Luglio) |