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La bambina che non parlava

 

Non sono una grande camminatrice, la mia voglia di raggiungere subito la mèta mi induce spesso a prendere l'auto anche per brevi tragitti; sono però una gran parlatrice e indugio con tutti quelli che incrocio nel brevissimo tratto che devo fare per raggiungere il parcheggio, perdendo così tutto il tempo che avrei voluto guadagnare e anche di più.
Mai però che me ne fossi pentita!
Qualche giorno fa, disquisendo di problemi quotidiani con una persona, la mia interlocutrice ha intercalato più volte: “Ma che parlamm' affà, tanto è inutile!”
Allora le raccontai questa fiaba che fiaba non è.
C'era una volta una bambina che non parlava.
Era una bella bambina bionda arrivata a scuola da qualche anno e non parlava con nessuno. Ogni mattina entrava a scuola e si sedeva ad un tavolo rettangolare posto al centro dell'atrio con una maestra fatta venire apposta per lei. La bambina taceva, entravano le altre maestre e lei taceva aspettando che tutti si chiudessero nelle rispettive aule. Entravano a frotte gli altri bambini e lei taceva, mentre gli echi delle risate cristalline si perdevano dietro una porta che andava chiudendosi.
Poi lentamente, quando l'atrio rimaneva vuoto, lei, iniziava il suo personale pigolio con la sua personale maestra, l'unica che conoscesse il suono della sua voce e che era riuscita a creare uno strappo in quella corazza e guardarvi attraverso.
Faceva freddo nell'atrio di quella scuola di campagna, gli spifferi dell'inverno che era ormai alle porte l'avevano vinta sul portone che gli acciacchi degli anni avevano reso debole e incapace di opporsi a chi tentava di entrare.
Quella bambina, che chiameremo Bianca, a tutte le lusinghe della sua maestra che tentava di farla entrare in qualche aula per stare con gli altri bambini e, ebbene sì, anche per godere del tepore della vecchia stufa a legna, lei, ferma, non cedeva.
Imperterrita faceva sì che il suo diniego avesse ogni giorno la meglio.
Verso la metà di ottobre arrivò una supplente. Era una supplente allegra che amava molto il suo lavoro.
Amava soprattutto i bambini, sarà perché desiderava tanto averne uno.
Lei ogni giorno entrava a scuola col sorriso e non appena vedeva Bianca le parlava con dolcezza come faceva con tutti gli altri, anche se la bambina era l'unica a non mostrare alcun interesse a quello che quella nuova arrivata andava dicendo.
La supplente ogni mattina entrava in quella scuola piena di gelidi soffi e raccontava se era arrabbiata o era felice, se aveva litigato o fatto pace, se aveva un'amica o un nemico, se aveva un gattino o quel giorno aveva perso la tramontana.
Faceva anche delle domande alla bambina, domande a cui non veniva data mai una risposta, ma la supplente non se ne curava e continuava a parlare a lei e alla sua maestra come se fosse un discorso a tre e non a due.
Quando poi si ritirava nella sua classe per fare lezione, non chiudeva mai la porta e quando leggeva una storia o faceva un gioco particolarmente coinvolgente si metteva sulla soglia dell'aula per far sì che anche Bianca sentisse ma avesse anche la tranquillità di non sentirsi direttamente coinvolta.
Sempre così, giorno dopo giorno, e mai gli occhi della bambina rivelassero un benché minimo interesse.
Era la fine di novembre, quella mattina faceva più freddo del solito e tutti i bimbi entrarono di corsa e si rannicchiarono intorno alla stufa fumante della loro aula. La maestra di Bianca non stava bene, era raffreddata e il gelo che spadroneggiava nell'atrio peggiorava le cose. Tutto però si svolse come al solito e la bambina che non parlava non diede segno di un benché minimo cedimento.
A metà mattina la supplente stava raccontando una bella storia quando, rivolgendosi a Bianca dall'uscio dell'aula lasciato aperto, fece cadere la domanda: -Bianca vuoi entrare in classe con noi? Fa freddo e la tua maestra non si sente bene!-
Nessuno sperava nulla, nessuno pensò a nulla, nessuno rifece la domanda e nessuno replicò.
Bianca guardò per un lungo attimo la sua maestra poi prese i libri che aveva sul banco nell'atrio e in silenzio si alzò ed entrò, per la prima volta nella sua vita, in una classe. La porta dell'aula fu chiusa dietro le loro spalle e la giornata continuò come se nulla fosse accaduto.
La supplente e la maestra si guardarono senza non proferire parola ma erano pienamente consapevoli di quanto fossero stati lunghi e faticosi quei tre metri per Bianca, che storia dolorosa c'era dietro quei dieci passi, quante sofferenze nel fardello che la famiglia le metteva su quelle spallucce esili e che la appesantiva tanto da non permetterle aneliti di condivisione con altri bambini, quanta paura nell'accorciare quella minuscola chilometrica distanza.
Ma come mai proprio quel giorno, in quella classe, con quella maestra?
Le due maestre si resero subito conto che in tutto quel tempo Bianca aveva lasciato che le parole della sconosciuta fluissero dentro di lei, aveva ascoltato e guardato con la percezione del cuore, aveva sentito l'affetto per la specificità che non è disuguaglianza e aveva accettato di incontrare gli altri perché aveva intuito che l'altro non è un antagonista ma uno “straniero” da conoscere. E può anche essere bello!
Le maestre furono felici quel giorno ma lo furono ancora di più quando videro la felicità degli altri bambini perché un bambino è buono, sempre, se non viene cambiato dai grandi.
Da quel giorno Bianca entrò sempre in classe in silenzio, in silenzio festeggiò il suo compleanno a scuola con candeline magiche che si riaccendevano da sole come si riaccendevano i suoi occhi ogni qualvolta un pezzo di mondo le diventava amico.
La supplente per Natale andò via ma seppe tempo dopo che Bianca aveva cominciato anche a parlare con i compagni, solo qualche monosillabo, ma era già un passo e poi finì la scuola come tutti gli altri bambini e con tutti gli altri bambini.
Però il giorno in cui Bianca fece quei dieci passi che pesavano dieci anni, per quella “supplente” che ora è una “maestra di ruolo”,come dicono le carte, fu un giorno speciale: ebbe la conferma che la scuola non serve solo per imparare a leggere, scrivere e far di conto ma per sussurrare parole intrise d'amore a bambini che, può capitare!, a volte scelgono la via del silenzio.
Dopo il racconto la mia interlocutrice sorrise e mi salutò con un'espressione indefinibilmente pensosa.
Io raggiunsi la mia utilitaria con la ferma convinzione che le parole pronunciate non si disperdono mai nel vento ma prendono direzioni a volte sconosciute.
Era accaduto per Bianca e, di sicuro, quel giorno anche per la mia scettica interlocutrice!

Esterina De Rosa
(da Il Sidicino - Anno X 2013 - n. 10 Ottobre)