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Gli eccidi nazisti a Pignataro del 12 e 14 ottobre 1943

 

«La strage di Pignataro e il dramma di Terra di Lavoro nell'autunno-inverno del 1943», in Antonio e Giovanni Borrelli, «Per una memoria pubblica. Spunti e riflessioni sugli eccidi nazisti di Pignataro Maggiore», Piccola Editalia, Vitulazio (CE), 2014, pp. 31 e ss.

Il 12 ottobre 2014 è ricorso il 71° anniversario degli Eccidi Nazisti avvenuti a Pignataro Maggiore il 12 e 14 ottobre 1943. In quel drammatico contesto di occupazione e guerra, 25 civili pignataresi furono barbarmente uccisi nelle località Taverna ed Arianova dalle truppe tedesche stanziate sul territorio. In ricordo del sacrificio di quei concittadini trucidati, simbolo di una comunità ferita ed offesa, l'Associazione "”La Città del Sole” ha curato la pubblicazione del testo "Per una Memoria Pubblica - Spunti e Riflessioni sugli Eccidi Nazisti di Pignataro Maggiore".

Di seguito riportiamo il contributo del Prof. Giovanni Cerchia.
La strage di Pignataro e il dramma di Terra di Lavoro nell'autunno-inverno del 1943

 

La storiografia è una disciplina scientifica assai recente. Prima del XIX secolo, infatti, non esisteva una codificazione del metodo di ricerca, tanto meno scuole e università che ne prevedessero l'insegnamento sistematico. Non dipendeva da una precedente distrazione, quanto invece da un'evidente necessità politica. Difatti, all'indomani della duplice rivoluzione che poneva fine all'ancien regime, la storia diventava uno strumento fondamentale per la definizione della comunità nazionale — del luogo, cioè, che aveva il compito di individuare il vincolo pattizio della nuova sovranità.
Sicché, lo studio del passato lasciava le botteghe antiquarie per porsi come strumento di una pubblica narrazione dell'appartenenza collettiva; il che definiva prospettive d'azione, confini della memoria comunitaria, termini d'esercizio del potere politico-istituzionale. Non a caso, il paradigma storiografico originario, elaborato da Leopold von Ranke nel cuore dell'Ottocento borghese, individuava negli eventi della politica e delle sue élite i nodi pressoché esclusivi con i quali la disciplina doveva fare i conti. Di conseguenza, le fonti della ricostruzione erano sempre e soltanto quelle dettate dai documenti ufficiali — prodotti dallo Stato nelle sue diverse articolazioni amministrative.
Le cose cambiavano con il Novecento, il secolo delle masse, quando nuovi protagonisti irrompevano sulla scena e conquistavano una piena cittadinanza politica, pretendendo che la storia si occupasse di loro in termini non marginali. Per forza di cose, fu proprio allora che il paradigma rankiano era messo seriamente in discussione: dilatando sia gli interessi disciplinari (dalla politica alla storia del territorio, dell'ambiente, della società, dell'economia, dei generi sessuali, ecc.) che le tracce con le quali lo storiografo era chiamato a ricomporre il puzzle del passato. In altri termini, il documento scritto e ufficiale conservava il suo valore, ma perdeva centralità e univocità. Non era più la principale fonte alla quale attingere per comprendere e raccontare il cammino delle nuove classi che conquistavano la scena.
In questo ambito, come ricordato dallo stesso Giovanni Borrelli, nasceva e si consolidava anche una specifica euristica dedicata alla raccolta delle testimonianze orali. Entravano in gioco i ricordi di un mondo socialmente e politicamente subalterno che, per definizione, non trovava spazio (se non per ragioni repressive) nella documentazione di polizia, militare, prefettizia o diplomatica. Fonti, tuttavia, che proprio per questa ragione squadernavano una serie di riflessioni rivelatrici dei concreti meccanismi di inclusione-rimozione che avevano condizionato il corso successivo della storia. Non si tratta, ovviamente, di rivendicare il valore una sorta di populismo scientifico, alla ricerca di una rivincita sul mainstream storiografico. Non esistono una storia ufficiale (del potere) e una ufficiosa (delle comunità). Esistono, invece, buone e cattive storiografie; e gran parte della controstoria (penso anche ad alcuni fortunati libelli dedicati alle vicende della Resistenza, piuttosto che regno delle Due Sicilie trattato come l'Eldorado) non merita neppure un posto marginale sugli scaffali della science fiction.
Nel contempo, le nuove fonti ci danno un'opportunità, arricchiscono il nostro sguardo sul mondo del passato, intrecciandosi con la documentazione ufficiale, a patto che si batta il sentiero della ricerca con onestà intellettuale e una doverosa acribia filologica. Le fonti, tutte indistintamente, infatti, non parlano motu proprio. Ci raccontano qualcosa solo se interrogate, interpretate e verificate anche alla luce di altri riscontri, correttamente indicati e sottoposti all'attenzione del lettore-studioso. Altrimenti, più che usare le fonti (vecchie e nuove), si è usati dalle stesse, con il rischio di diventare incapaci non solo di raccontare in modo sensato il nostro passato, ma di restarne schiacciati senza alcuna autonomia di giudizio.
Eccidi nazisti. Pignataro Maggiore, ottobre 1943 non appartiene a quest'ultima schiera. Anzi, è un esempio molto ben riuscito di raccolta e d'interpretazione delle fonti orali; tanto più che la ricerca non indulge mai in una retorica a senso unico del racconto dal basso. Diversamente, il libro non manca mai di confrontarsi in modo serrato con la produzione storica di fattura locale, così come con le nuovissime acquisizioni documentali rinvenute (grazie al contributo di Pino Angelone) negli importanti National Archives di Washington D. C.
Il risultato conclusivo è quello di un pregevole contributo alla riflessione sui drammatici eventi dell'ottobre del 1943, in un territorio che la grande storia aveva condannato a subire i colpi della guerra totale, nella morsa tra i tedeschi in ritirata verso la linea Gustav e gli anglo-americani in avanzata dalla piana di Battipaglia. Una vicenda dimenticata anche perché, nell'Italia degli anni 50 e 60, la ragion di Stato (italiana e Atlantica) non aveva alcun interesse a riaprire un contenzioso con la Germania, nel contesto del contrasto internazionale Est-Ovest che aveva ridisegnato interessi e priorità). Tanto meno si era interessati a dare una sponda alla Jugoslavia affinché, di fronte a un possibile processo di Roma ai criminali di guerra tedeschi, potesse pretendere di imbastirne uno analogo contro quelli, non meno gravi, commessi dagli italiani nel corso dell'occupazione dei Balcani.
In questo senso, il lavoro curato da Borrelli è anche un rinnovato atto d'accusa nei confronti dell'armadio della vergogna, cioè dell'archiviazione illegale delle inchieste sulle stragi che, già nell'immediatezza degli eventi, avevano definito dinamiche e indicato precise responsabilità. Più in particolare, dal suo lavoro si traggono alcune importanti conferme ed altre, altrettanto significative, novità. Le prime riguardano un doppio e classico meccanismo: (1) quello della rimozione politico-sociale; (2) quello della contestuale ricerca del caprio espiatorio-nemico interno. Infatti, come in moltissimi altri casi, anche a Pignataro le stragi e violenze venivano espunte dal racconto ufficiale, sottratte alla storia collettiva della comunità, trattate come un corpo estraneo che poteva continuare a vivere solo nell'enclave del ricordo dei diretti protagonisti. Si trattava, in breve, di negare alle stesse un valore periodizzante (una frattura traumatica che costringeva a fare i conti con le responsabilità della guerra, con i suoi decisori e con i rappresentanti sui diversi territori), operando una sterilizzazione del dramma, ridotto al rango del martirio piovuto-imposto dal cielo, per impedire che venisse messa in discussione la linea dei continuità delle élite. Queste, infatti, avevano spesso e volentieri blasoni e patronimici sempre uguali a se stessi,senza differenze a seconda dei regimi e delle fasi politico-istituzionali; segno del tradizionale dominio sociale connesso al latifondo agrario e al notabilato professionale, passato indenne dal liberalismo al fascismo, dalla camicia nera alle sezioni dei partiti moderati nella nuova Repubblica. Allo stesso modo, la ricerca-individuazione di un colpevole-caprio espiatorio attivava un meccanismo di rimozione-rielaborazione, mettendo sullo sfondo i veri responsabili della tragedia — nazisti, collaborazionisti, maggiorenti che non seppero salvaguardare gli interessi, i beni e la vita dei propri concittadini. Incarnare in tal modo la colpa aiutava a deresponsabilizzare i sopravvissuti, semplificava le spiegazioni dell'accaduto per renderle accettabili e meno dolorosi (si pensi agli stupri, innominati e innominabili). Insomma, si sofisticava il ricordo per neutralizzarlo politicamente e socialmente. Ne conseguiva una riconduzione degli eventi alla pura e semplice logica frammentaria dell'incidente — quasi si fosse stati vittime di un cataclisma naturale —strappato via da ogni contesto di carattere storico più generale.
Pertanto, a Caiazzo erano gli astanti della masseria di monte Carmignano a essersela cercata, segnalando agli ex nemici americani la propria posizione; a Bellona e a Pignataro l'onere toccava all'uccisione dei tedeschi; a Sparanise al furto di una borsa (piena di gioielli o di documenti, a seconda delle versioni); a Conca alla presenza e all'attività di un agente dell'intelligence Alleata; a Marzabotto (solo per accennare agli eventi dell'appennino tosco-emiliano) alla presenza dei partigiani. E così via. Mentre la verità era ed è che, a partire dall'autunno del 1943, l'esercito tedesco applicava in Italia le stesse regole di ingaggio militare, d'impostazione esplicitamente stragista, elaborate per la guerra contro l'Unione sovietica: per punire il tradimento italiano dell'8 settembre, per esigenze eminentemente militari (guadagnar tempo e fare terra bruciata in vista della costruzione della linea di resistenza fortificata che faceva perno su Cassino), per tenere in ordine con il terrore le retrovie del fronte. Il che tratteggiava il quadro di un Mezzogiorno trasformato in un vero e proprio laboratorio della guerra totale.
Le novità, invece, riguardano (per un verso) l'entità e la qualità degli eventi stragisti compiuti sul territorio di Pignataro — con un'interessante analisi della loro articolazione e, addirittura, la presentazione di una documentazione fotografica dell'eccidio del cimitero che rappresenta, ad oggi, un vero e proprio unicum. Per un altro, molto rilevante è la sottolineatura della presenza di una diffusa resistenza organizzata, tale da spazzare via, una volta di più, gli antichi stereotipi sulla passività dei meridionali, forgiati dalla storiografia negli anni della guerra fredda (ma condizionati anche da una cattiva sociologia di marca anglosassone).
E non mi riferisco solo a Secondino Cafaro (evocato nei racconti, a seconda delle prospettive, o come una sorta di moderno Robin Hood, o come il colpevole dell'accanimento tedesco contro la popolazione dell'agro), ma alla presenza di tanti soldati sbandati che si saldavano alla popolazione locale nella battaglia quotidiana per la «difesa delle masserie» (p. 33), spingendosi fino a ben più diretti ed espliciti atti di sabotaggio nei confronti della presenza germanica. In quel confluire di storie e di scelte rinasceva, tra le altre cose, un prezioso senso di appartenenza e di solidarietà collettiva. Valori che si fa bene a rievocare, recuperare e conservare, per trasmetterle ai più giovani. Poiché questo è il significato vero e forte della traditio affidata alla storia.
Infine, ma non meno importante, colpisce come emerga nei racconti il carattere inquietante del campo di concentramento di Sparanise: una sorta di buco nero che polarizzava terrore e inquietudine. Era il luogo di raccolta degli schiavi italiani, punto di detenzione e persino di tortura (mi riferisco alle vicissitudini di Berardino De Vita, al quale erano strappati tutti i denti; o a quelle del De Riso, ucciso perché individuato come un possibile fuggitivo). Con buona pace di quanti, negando l'evidenza, negli anni passati hanno perso più di un'occasione per restare in silenzio.
Anche per questi motivi, l'impegno trasparente e disinteressato per la ricerca della verità storica, dobbiamo ringraziare La Città del Sole. Auspicando che continui nel suo lavoro di promozione della discussione e della ricerca

Giovanni Cerchia
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 11 Novembre)