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Spigolature di cronache sidicine - L'arco di Porta Napoli

 

Comunemente si dice che le parole sono pietre. Nel nostro caso vogliamo rovesciare l'assunto per dire che le pietre parlano o, se preferite, manca loro solo la parola. E allora tocca a noi interrogarle con curiosità e perizia per svelarne segreti, storia, vita e memoria… sulla scia e sull'esempio di Comenio che, circa mezzo millennio fa, suggeriva e ammoniva che per imparare e per crescere occorre interrogare il grande libro della natura.
Di essa fanno parte pure le nostre radici che sono riconducibili proprio al monumentale e storico “Arco di porta Napoli”. Quello che consente l'accesso al centro storico a chi proviene da sud e che è sovrastato da una lunga terrazza rettangolare che negli anni quaranta faceva pensare ad un giardino pensile di memoria babilonese. Infatti una metà, quella attaccata all'edificio contiguo in direzione ovest (dove ora insiste il complesso scolastico “Garibaldi”), soprelevata di circa un metro, era stata trasformata in una ridente pergola. In settembre diventava un richiamo ed una attenzione irresistibile per me che ero goloso d'uva; ma nonno Cipullo, proprietario della terrazza e dell'appartamento che da essa si sviluppava lungo la fiancata sud della chiesa e sopra la volta che conduce alla torretta con la cinta muraria medioevale, forse invidioso dell'avaro di Molière, mi permetteva di sognare e gustare i grappoli invitanti solo attraverso i vetri della finestra nel corridoio che dà, per l'appunto, proprio sulla terrazza in questione.
Che soggetto “zì Ndonjo”! Così lo chiamavano tutti, nel vicinato. Avvolto nel suo ampio mantello scuro, testone e chioma bruna sempre imprigionati da un cappello di tessuto a larghe tese, baffi scuri, non molto folti, ma lunghissimi e ben curati; barba corta ancora bruna; ghette su scarpe massicce che facevano da controcanto al cervello fino del contadino (anche se lui, in realtà, faceva l'ortolano, coltivando un ampio orto, ridente e fecondo, sito alle spalle dell'attuale Banco di Napoli); schiena un po' curva ed andatura alquanto incerta e lenta, talvolta leggermente claudicante, forse a causa dell'età e del diuturno pesante lavoro nell'orto. Durante la guerra, dopo una esperienza quinquennale di lavoro nelle pampas argentine, portare a spasso più di sessant'anni, con altrettanti chili di peso e circa 165 cm di altezza, non era né comodo né facile. Aggiungasi che il nostro andava quasi sempre a cavallo, anzi, a dorso d'asina: “pampa” si chiamava lo sventurato animale condannato a passare le notti in una stalluccia ricavata da una sorta di cella. Questa, invero, non era che una vecchia cantina presente nel lungo e buio androne che si apre al di là di un grande portone in cima ad una breve erta che parte ad angolo retto, subito dopo l'arco, da via N.Gigli, fiancheggiando la navata inferiore della chiesa della Madonna delle Grazie. Poi, sempre coperti dalla altissima e indistruttibile volta, volendo, si può continuare a salire sulla destra per rivedere la luce dopo una ventina di metri, dove a cielo aperto è possibile guardare a destra per vedere la “pignaruruca” e il rione Sardella, o, se si preferisce, a sinistra per costeggiare il caseggiato di Nicola Campasulo, Carminuccio 'o zucazizze, Ronzinzò, Sciacquarotto ed altri personaggi di cui ci siamo occupati altre volte, fino alla torretta dianzi menzionata.
Ma il cuore pulsante, il centro vitale del rione Viola, della torretta, della pigna ru ruca, era l'Arco di Porta Napoli. Quante volte ci ha riparati dalla pioggia e dal vento! Ci ha celato agli occhi delle nostre mamme che si affacciavano da balconi, finestre, terrazze, usci e ci chiamavano… non perché magari era l'ora del pranzo o della cena, ma semplicemente perché aspettavano l'acqua che noi ragazzi eravamo andati ad attingere con due secchi alla fontanella pubblica laddove ora sorge il gazebo del bar Sanna. Colà, all'epoca, esisteva una falegnameria con abitazione sovrastante, specializzata nell'allestimento di bare destinate ai poveri e, più tardi, sempre su mandato della pubblica amministrazione, delle assi da assemblare per simulare delle cabine elettorali.
Se l'arco potesse parlare ci rivelerebbe pure che là dove oggi sorgono la fontanella ed una panchina per i vecchietti che la impegnavano quando c'è il sole o l'ombra, a seconda delle stagioni, c'erano le latrine, sempre affollate, specie al mattino presto ed alla sera tardi.
A fargli le domande giuste, o cliccando sul suo immaginario “database”, potremmo anche assistere al rituale spettacolo del muretto di “pampantonio”: un muretto che nasce come muro di sostegno dell'arco in direzione nord, parallelo alla chiesa, per poi degradare all'inizio di questa ed aprirsi ad una breve scalinata che procede a ritroso, verso l'arco. Ebbene lo spettacolo di “pampantonio”, che è un acronimo di pampa + antonio, aveva luogo due volte al giorno, festivi compresi, al mattino verso le sette e la sera al tramonto. Era questo muretto, infatti, lo sgabello di cui Zi' Ndonijo si serviva immancabilmente per montare e smontare dall'asina il cui nome, pampa, evocava malinconicamente la pregressa esperienza migratoria in Argentina.
Ma dell'Arco parleremo ancora in una prossima puntata.

Nello Boragine
(da Il Sidicino - Anno IX 2012 - n. 1 Gennaio)