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Viaggio retrospettivo della memoria nella galassia dei

soprannomi Sidicini
 

La mattina del 28 giugno del 1857 la spigolatrice di Sapri fu poeticamente spedita da Luigi Mercantini a caccia di spighe; noi, invece, una mattina di marzo dell'anno di grazia 2010, usciti finalmente da un sogno sconvolgente, di quelli che ti paralizzano e ti strozzano la voce in gola, ci siamo ritrovati seduti in mezzo al letto con le braccia protese nel vuoto, a caccia d'un otre di vino paesano, nel vano tentativo di fermare una mano che di umano aveva ben poco; ma brandiva un rasoio pronto a recidere le (nostre) carotidi, già oggetto di attenzioni speciali da parte del radiologo vascolare…
Appena il recupero fisiologico ha avuto ragione del blocco emotivo, dalla glottide è partito un urlo liberatorio al cui cospetto quello di Tarzan somiglia ad uno starnuto amplificato! Sembra inutile dire che si è svegliato tutto il palazzo, e il terzetto di cani dei nostri confinanti ha colto al volo l'occasione per improvvisare un inedito concerto, questa volta omofono, mesto e ovviamente all'unisono (si vede che il nostro urlo sovrumano li aveva, deo gratias, sopraffatti o, quantomeno, ridimensionati).
Il Lettore penserà, che stiamo fuori tema: tranquillo! L'identità del subumano antagonista onirico ci proietta immediatamente nel merito del titolo del nostro contributo: si tratta di tale “SCIACQUAROTTO”, così soprannominato non solo perché talvolta confondeva l'acqua con lo “sciacquante”, cioè il vino (come usava dire nel gergo dell'epoca) e così finiva per mettere a mollo il cuoio troppo duro nella bacinella contenete il secondo anziché in quella contenete la prima. I soliti bene informati, però, scartano l'ipotesi dell'errore, sostenendo che “MASTU NGIULIGLIO”, di professione calzolaio con bottega in via dei “CAUZULARI” (= Nicola Gigli), era convinto che come ammorbidente del cuoio andava meglio lo sciacquante. A tenergli bordone quando si dice il caso era la moglie Costanza che, rima a parte, era più sostanza che forma… Abitavano dove, secondo voi, se non sulla cosiddetta “Torretta”? Quella che guarda su via Porta Napoli e dà le spalle al noto Rione “Viola”, velocemente ripopolato e affollato nel secondo dopoguerra e stranamente generoso ed ospitale con soggetti particolari, non altrimenti identificabili (allora come oggi) se non attraverso i soliti SOPPRANNOMI: PARICIEGLIO 'A URECCHIA, 'NDONIJE 'E LIGNAME, 'U MBRELLARO, CARMINUCCIO 'U ZUCAZIZZE, AFFREDO 'A CIUCCIUVETTOLA, ZÍ BACCO, 'U FUNARO, MARIUCCINA MADREPEPPE, PEPPINO 'U CACCIUTTO, RONZINZÓ, NGELECA 'A CAPERA, NICOLA CAMPASULO, CARMELUCCIA 'A LATTARA, MEZACULELLA, 'I CARCAIUOLI, FURTUNATELLA, 'I CRAPARI, TATÁ BIDONE e qualche altro non registrato nella nostra memoria di fanciullo monello, spesso rincorso o minacciato o “segnalato” ai suoi genitori che, senza badare a spese, gli somministravano davvero di tutto… fino al salto dei pasti o a quello delle rampe delle scale pur di sfuggire alle pesanti pene corporali. Di alcuni dei predetti personaggi, come di altri loro “colleghi” (domiciliati in altri siti della nostra cittadina) ci siamo già occupati in altre occasioni; qui, al citato SCIACQUAROTTO (siamo o non siamo in regime di 'par condicio'?) vogliamo associare qualche altro soggetto, la cui fama naturalmente andava e tuttora va ben oltre il famigerato Rione Viola: il tutto sempre e solo in chiave affettuosa e fraterna, con memoria grata e commossa verso chi ci ha preceduto in un viaggio che, scongiuri a parte, tutti dovranno compiere. D'altra parte, una comunità senza memoria è come una comunità senza futuro; inoltre, non va trascurato il piccolo dettaglio che il presente è figlio del passato! E se, come scrive Guido Piovene, il nostro animo è un asilo di persone e di cose, che vivono indipendenti con le loro realtà ineffabili, noi ne siamo responsabili e perciò il ricordo è un dovere.
E noi vogliamo onorare questo dovere osando accostare, senza pretese e senza irriverenza, la spigolatrice di Sapri, che quel giorno si scordò di spigolare e quindi tornò a casa a mani vuote (oltre che col cuore a pezzi), all'ultimo dell'elenco stilato innanzi: TATÁ BIDONE. Anch'egli, come la Saprese, si recava in campagna (possedeva un fazzoletto di terra a ridosso di quella che allora nel dopoguerra era identificata come “MADONNA DELLE GROTTE”: oggi TEATRO ROMANO) ma, a differenza di quella, lo faceva ogni giorno (o quasi) e ci andava sempre in compagnia di una carriola, all'interno della quale la sera, in mancanza di meglio, portava a casa qualche foglia o qualche rametto per il caminetto. Viveva con il figlio in un basso di via S. Michele, un tratto di basolato che collegava il Rione Viola con la via Nicola Gigli, di fronte alla scala del carcere vecchio.
Prima di chiudere la nostra chiacchierata, vogliamo tentare una dissolvenza dell'atmosfera melanconica precedente in un siparietto più leggero e, per quanto possibile, divertente. Scegliamo a questo fine, altri 4 soggetti, tra quelli elencati e identificati come il TRIO “RONZINZÓ” e PARICIEGLIO 'A URECCHIA.
Il primo corrispondeva ad una famiglia di 4 persone, di cui una, il primogenito (Minicuccio) aveva già preso il largo. Rimanevano 1 sedicente chitarrista e 2 presunte cantanti, l'uno e le altre “mancati” o “prematuri” dilettanti allo sbaraglio! Il deus ex machina era NDONIO, marito di “ANGELICA” detta “'A CAPERA”, perché si alzava nottetempo e, con la vecchia macchinetta napoletana del caffè ancora bollente in una mano, pettini, pettinelle e 'pettinesse' nascoste in una sorta di busta di pelle nell'altra mano, raggiungeva silenziosa e spedita le sue fedelissime clienti a domicilio, per pettinarle e, sovente, per spidocchiarle. Era piccolina, agile, eterea, sempre sorridente, scattante, precisa e disponibile; camminava a passettini così leggeri e veloci che sembrava volare; quanto alla voce, era stridula, nasale e fortemente vibrante, come quella di una zanzara. Di qui il soprannome “RONZINZÓ” appioppato alla famigliola dal vicinato, che lo aveva ricavato, pare, dalla originale combinazione onomatopeica di sillabe presenti nella terna “RONZIO ZINZÍNO ZONZO”, rispettivamente riferibili al ronzamento delle corde vocali di 'Ngeleca e di quelle stonate della chitarra con la quale il nostro 'NDONIO ci consolava ogni sera al tramonto del sole, quando, per schiarirsi la voce, ricorreva ad un zinzìno di rosolio, dopo di essere andato a zonzo per buona parte della giornata. Ai due coniugi si aggiungeva sempre la figlia BIANCA, notoriamente carina ed effervescente. Il TRIO “RONZINZÓ” abitava, manco a dirlo, sulla Torretta e, per giunta, sullo stesso pianerottolo dello scrivente. Finito il concerto nella zona alta della Torretta, dalle viscere di un vano terraneo sottostante di vico Viola, ecco levarsi al cielo la voce del cavernicolo che immancabilmente tuonava: “Aite funuto? 'Nge sta chiù nisciuno can un tene caccosa 'a rice? Site addivenatti tutti muti o site muorti tutti quanti? Stasera nisciuno se ricorda 'e me?” Era PARICIEGLIO 'A URECCHIA, un vecchietto solitario che aveva la singolare virtù di fare tutto da solo: protestava contro Ronzinzò e contro quelli che lo stuzzicavano a causa d'un orecchio che aveva perduto durante i bombardamenti; protestava contro il silenzio della sera e, forse, per farsi coraggio e/o verificare se era ancora vivo, si auto sfotteva ad intervalli regolari; fino a quando, vinto dal sonno, diventava tutt'uno con la notte.

Nello Boragine
(da Il Sidicino - Anno VII 2010 - n. 4 Aprile)