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Reminescenze popolari risalenti ad Omero

 
 

In letteratura col termine di “Omero minore” si sogliono indicare alcune opere che di solito vengono, dagli antichi, attribuite ad Omero. Alcune di esse sono concomitanti, secondo i filologi, con l'epoca in cui sia potuto vivere Omero ( ottavo/nono sec. a. C ), altre sono postume a questo periodo, altre ancora si perdono nella nebbia delle civiltà Micenee.
Fatto sta che da alcuni epigrammi arcaici e dallo stesso Pseudo - Erodoto ci arrivano notizie che Omero nell'isola di Samo abbia recitato delle poesie popolari, due delle quali di notevole bellezza: La Fornace ed Eiresione.
Della prima daremo solo un cenno: il poeta, in essa, rivolgendosi ai vasai di Samo, in un tono fra il serio ed il faceto, augura una buona fortuna se gli pagheranno il compenso della sua canzone, altrimenti minaccia la distruzione della fornace e di tutti i vasi per mezzo dei suoi numi tutelari, chiamando in causa la stessa Circe.
La seconda: Eiresione, era il nome che si dava ad un ramoscello di ulivo o di alloro adorno di bende, portato dai Supplici nel loro peregrinare. L'usanza si ripeteva anche fra i ragazzi poveri che in certi periodi dell'anno usavano girare, con in mano questi ramoscelli, di casa in casa, cantando questa poesia per avere qualche piccola offerta.
Nella composizione, si avverte tutta la freschezza e la semplicità della poesia popolare:

Eiresione
Ecco ci siamo rivolti alla casa di un grande signore.
Ch'ha gran potere e gran voce d'un uomo magnifico e ricco.
Su, da voi stesse ora apritevi, o porte, poi ch'entra ricchezza,
molta ricchezza, e con essa la gioia fiorente e la
buona pace; e quante anfore dentro vi sono, si colmino tutte;
e dalla madia una bella focaccia giù scivoli sempre,
fatta di fina farina, condita di sesamo e miele.
Ed a voi presto verrà sopra il carro la sposa del figlio,
a questa casa belle mule piè solidi la condurranno,
onde ella tessi la tela, movendo i suoi piedi sull'ambra.
Oh! tornerò, tornerò come torna la rondine ogni anno.
A piedi scalzi qui sto sulla soglia; or via, subito dona,
dona qualcosa, nel nome di Apollo, signor delle vie.
Se dai, o se non dai, non resteremo,
ché non venimmo qui per abitarci.

Questi canti, come avrete capito, trovano ancora eco nelle nostre filastrocche natalizie di fine anno (S. Silvestro) nei paesi dell'Italia meridionale, ove la Grecia, attraverso le numerose colonie che per secoli vi stabilì, profuse commerci e nuovi valori, rendendo belle quelle terre di arte e di cultura.
Le reminiscenze costanti della lingua greca in molti paesi dell'Italia meridionale, chiamata oggi Griko ne rappresentano una evidente residuale testimonianza, tanto che si è deciso di valorizzare e difendere la scomparsa di questo prezioso vernacolo.
Ovviamente quel che rimane di quei canti, vuoi per le civiltà che si sono succedute in 2700 anni, vuoi per l'avvicendarsi delle religioni pagano/cristiane e dei modificati riti cultuali che ne sono seguiti , hanno modificato valori e sensibilità umane.
Così mentre, l'augurio, che possa giungere, nella famiglia, una sposa ricca e fine, la quale darà figli e si aggirerà per la casa donando gioia, ci appare di una purezza e di una semplicità disarmanti: “ …Ed a voi presto verrà sopra il carro la sposa del figlio, a questa casa belle mule piè solidi la condurranno, onde ella tessi la tela, movendo i suoi piedi sull'ambra.”
Di contro nei canti di S. Silvestro l'invocazione: “ … che puozzi fa nu figliu 'mperatore e natu assettatu 'coppa a la seggia papale …” è mancante di ogni poesia e semplicità di valori, ma certo più onnipotente, da una parte il raggiungimento del potere temporale e dall'altra quello del potere spirituale, che poi è la stessa cosa.
Ancora, in Eiresione leggiamo: “ … or via, subito dona, dona qualcosa, nel nome di Apollo, signor delle vie.” Ed anche in S. Silvestro si chiede l'obolo: “ … Patrone re la casa scignece gl'auciatu (tortano di pane con l'uovo sopra)”.
Ma vediamo come si reagisce in entrambi i casi , ad un eventuale diniego. In Eirisione: “ … Se dai, o se non dai, non resteremo, ché non venimmo qui per abitarci.”
Vediamo invece come reagiscono in S. Silvestro i questuanti: “ … Tiestu e tiana e mammeta è ruffiana. Ru susciu e ru susciu a casa toa cena re perucci. Ru lauru e ru lauru a casa toa cena re riauli.
La prima reazione è educata. La seconda lancia addirittura una Jastemma, che la casa si riempia di diavoli.
Ma v'è un aspetto in questi canti popolari che i secoli non hanno intaccato: la personificazione delle porte, una loro mitologica autonomia nell'aprirsi da sole.
Vediamo, in Eiresione: “Su, da voi stesse ora apritevi, o porte, poi ch'entra ricchezza, etc. …”.
In S. Silvestro, “ … arapite porta e libbera sta casa re pene e re uai …”.
Ma l'aspetto non è appannaggio soltanto della cultura popolare, lo ritroviamo anche nella letteratura e addirittura ne lasciano evidenti e ricorrenti tracce le sacre scritture.
In un Imeneo dell'età arcaica, leggiamo: “ … spalancatevi porte, entra uno sposo pari ad Ares, molto più grande di un uomo grande …”.
E nella Bibbia, Salmo 24: “ Sollevate, o porte le vostre architravi, apritevi, o porte eterne, deve entrare il re della gloria … etc.”.
Dunque la porta quale immaginario limite di ogni fantasia, di ogni desiderio, di ogni sogno bello o brutto, che al di là di essa accoglie o rigetta.
Forse vale la pena di soffermarci ancora un attimo su alcune tradizioni, ormai, scomparse. In Eiresione là dove si legge “ … Ed a voi presto verrà sopra il carro la sposa del figlio, a questa casa belle mule piè solidi la condurranno, …”, c'è da dire che a quei tempi era usanza voluta dagli dei, se le vergini e le spose venivano trasportate da mule aggiogate a grandi carri che, specialmente nelle grandi occasioni, venivano addobbati con fiori di melitolo, gerfoglio e loto ed intrecciati a mo' di corone.
Sono molte le testimonianze di queste usanze riportate nell'antichità, alcune di esse hanno attraversato e attraverseranno i secoli in componimenti letterali, possiamo dire, eterni.
Nel canto VI dell'Odissea la dea Minerva apparsa in sogno alla principessa dei Feaci Nausica, nell'eventualità di prossime nozze, le consiglia di recarsi al fiume con le ancelle per lavare le belle vesti, dunque il corredo. Così la mattina, come primo pensiero, la fanciulla dopo aver chiesto il permesso al padre, fa aggiogare, dalle sue ancelle, ai carri le belle mule e si avviano verso il fiume.
Per un'altra testimonianza scomoderemo la poetessa di Ereso: Saffo, così lontana nel tempo, ma capace, nelle sue liriche, di far vibrare corde dell'animo umano così fini e squisite che difficilmente la poesia , da allora, ha più smosso. Ciò che riporteremo qui non è, però, una sua lirica ma un frammento di un suo bellissimo canto nuziale (un ipotalamo), ispirato alla mitica vicenda dell'esemplare matrimonio di Ettore ed Andromaca e composto e messo in rima per due sposi del periodo arcaico.
Pur se, purtroppo, frammentario il componimento, dà la sensazione al lettore di trovarsi in scena e partecipare a tanta gioiosa e festosa concitazione: … giunse di corsa l'araldo e, postosi in mezzo, così parlava, … , messaggero veloce, recando queste notizie “ … Ettore e i compagni conducono la splendida elegante Andromaca dalla sacra Tebe e dalla perenne fonte di Placia su navi attraverso il salso mare. Molti bracciali d'oro e vesti purpuree al soffio dei venti giungono, ornamenti variopinti e innumerevoli coppe di argento e avorio”. Così disse. Prontamente si alzò il diletto padre. La novella giunse attraverso la città dalle ampie vie agli amici. Subito le donne sotto i carri dalle belle ruote spingevano le mule e vi montava tutta la folla delle donne e delle vergine dalle delicate caviglie. … e grandemente … gli aurighi … e l'aulo dolce suono e l'arpa si confondevano e lo strepito dei crotali … e con voce squillante le vergini intonavano il canto arcano, e arrivava fino al cielo l'eco possente … e dappertutto per le strade … vasi e coppe … mirra e cassia e incenso si mescolavano e le donne anziane gridavano eleleu e tutti gli uomini innalzavano alto clamore gradito, invocando Peana lungi saettante bella lira, e lodavano Ettore e Andromaca simili agli dei.
Infine, il carro trainato dalle mule quale status symbol delle donne dell'antichità, trova ampia conferma anche nelle testimonianze archeologiche.
Un esempio su tutti è rappresentato dai Pinakes Locresi: testimonianze raffinate dell'arte della Magna Grecia. Essi sono quadretti votivi in terracotta a bassorilievo, di rappresentazioni di momenti cerimoniali di preparazione alle nozze: la sposa che si pettina e si acconcia, il corteo nuziale su di un carro infiorato trainato da mule, le oblazioni di purificazione, e così via.
Nei rilievi della basilica Emilia, tra gli episodi delle origini di Roma, è rappresentata la scena che raffigura il momento del ratto (delle sabine da parte dei romani), in cui compare un carro trainato da mule, di cui le sabine si sarebbero servite per recarsi alle Consualie: antiche feste romane che si celebravano in onore di Conso due volte l'anno nel periodo della semina e del raccolto del grano.
Nella deposizione della così detta regina di Sirolo (nobildonna della civiltà picena) della fine del VI sec. a.C., insieme al ricchissimo corredo oltre a due carri, erano seppellite anche due mule, evidentemente sacrificate per l'ultimo viaggio della padrona.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno XVI 2019 - n. 6 Giugno)