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Note su alcuni "detti" locali

 

Ho seguito in qualche numero del “Sidicino” l'ottimo lavoro del prof. Martone sui “Detti popolari in Terra di Lavoro” e sui dialetti. Non sbaglieremmo nel dire che in Campania per la varietà e ricchezza dei proverbi e degli additti si avrebbe a disposizione un idioma a parte da poterci colloquiare in termini compiuti. Così come non sbaglieremmo nell'affermare la sostanziale diversità del lessico di uno stesso dialetto in luoghi a volte lontano soltanto qualche chilometro. Ne sono un esempio peculiare gli stessi casali intorno Teano ove è possibile riscontrare un'evidente differenza di pronuncia nello stesso dialetto, ad esempio fra i casali a Nord/Ovest l'articolo determinativo il e lo diventa a volte u a volte lu e più spesso ru. Senza parlare poi della stessa città di Teano, essa rappresenta veramente un'isola a parte per la diversità del suo vernacolo che richiama fortemente quello della ex capitale: Napoli. Per quanto riguarda la nostra Città vale la pena di spendere qualche parola sull'attinenza del vernacolo teanese con quello Napoletano. Tale particolarità va ricercata nella secolare influenza politica e dei governanti della nobiltà Napoletana che nella nostra città si sono succeduti, e dei quali tutt'oggi ne riscontriamo una massiccia presenza in qualità di proprietari terrieri.
Così quando Principi e feudatari si muovevano da Napoli per venire a prendere possesso della nostra città portavano con sé il proprio seguito che non era solo quello istituzionale ma si arricchiva di molti faccendieri: armigeri mercenari con meretrici al seguito, commercianti ed artigiani di ogni genere: chiavettieri, solapianelli, cappellai, armaiuoli, speziali, tinellari, mulattieri, cappellai, tavernari etc. che speravano di venire a far fortuna con le proprie famiglie, spesso protetti dagli stessi governanti che seguivano.
Per tornare al lavoro del prof. Martone, si potrebbe tentare in seguito di fare dei raffronti fra i “detti” di Pignataro e i “detti” di Teano. In questo spirito che ci siamo riproposti, ci sia consentito fare qualche piccola notazione di alcuni proverbi che il prof. Martone cita, sia sulla diversità morfologica che sulla diversa interpretazione che ne vorremmo dare.
Pare 'u fuoco r'a vorpa - a Teano questo additto suona così Pare u fuocu r'a 'orpa, dunque si sostituisce la (o) con la (u) e la (v) si elide. Concordiamo che nel dire fuoco della volpe si vuole rappresentare un fuoco scarso e debole, ma poi il prof. di tale identificazione si chiede il perché (?). Noi conosciamo da dove l'immaginario contadino astrae questa metafora: addirittura da un Cuntu che si raccontava ai bambini. La volpe di ritorno dalle sue scorribande notturne amava scaldarsi al mattino presto prima di tornare alla sua tana accanto ad una palomma di lutama: mucchio di letame fumante. Come si sa i contadini ammucchiavano nei letamai le lettiere delle mucche che poi maturavano in ottimo fertilizzante per i campi. In autunno questo letame veniva posto nei campi in tanti mucchi che poi spaliavano (spargevano) prima di arare il terreno. Queste palomme di lutama fermentavano ancora per alcuni giorni liberando il vapore che condensava nell'aria, così che sembravano dei deboli fuochi accesi. Bisogna dire che qui la volpe, animale astuto per antonomasia, non ci fa una bella figura, ma appare piuttosto goffa nello scaldarsi accanto ad una palomma di lutama.
'U cane 'è caccia, quanno ha da caccià, 'i véne ra piscià – a Teano: Ru cane 'è caccia, quannu 'adda i a caccià, ri véne ra piscià il “detto” è simile salvo che per la solita (u) al posto della (o) e l'aggiunta della (r) sia all'articolo determinativo (ru) che al pronome ('i). Interessante invece è la (i) di andare che qui nel vernacolo teanese mantiene ancora la forma latina “ire”. Ma dobbiamo totalmente dissentire dalla spiegazione che ne dà il prof. Martone: “ Qui si sottolinea una caratteristica negativa che colpisce in particolare il cane da caccia perché l'arte venatoria era nel Medioevo disapprovata in generale dalla chiesa”. Tralasciamo qui di addentrarci nei “Capitulari mundana ed ecclesiastica” Medioevali ove, eventualmente, potremo tornarci in altro contesto. Il connubio “homo cum canibus” risale a tempi remotissimi e la caccia rappresenta, forse, la sola attività attraverso cui uomo e cane condividono le medesime trepidazioni primordiali. Dunque la nostra spiegazione è molto semplice: al cane da caccia gli viene da urinare perché non sta nella pelle per la gioia di andare a cacciare. Come si sa il muscolo dello sfintere a volte si rilassa o per la troppa gioia o per la troppa paura.
U sfizio r'u ciuccio è 'a rammegna fresca – a Teano: Ru sfiziu ru ciucciu è 'a ramegna – al di là delle ricorrenti differenze lessicali che il lettore può ben scorgere da sé, a noi interessa notare la mancanza nel detto teanese della qualità della gramigna che piacerebbe all'asino e cioè la gramigna fresca. Tale qualità della gramigna (fresca) manca e non a caso nel detto teanese, perché la gramigna che piace in genere ai quadrupedi a noi risulta essere: la gramigna secca. I carrettieri che instancabilmente, da Nord a Sud, percorrevano la Casilina fino ai primi decenni del secolo scorso, alle soste che facevano presso le taverne foraggiavano i loro animali certamente con biade, fieno ma anche con truocci di ramegna secca che i tavernari si facevano pagare lautamente non solo perché nutrienti ma perché gli stessi animali ne andavano ghiotti.
È d'obbligo spiegare ai lettori che quando parliamo di gramigna secca, non parliamo dell'erba essiccata ma parliamo delle radici della pianta, ovvero degli stoloni che sono molto resistenti ed infestanti del terreno. Quando vi era l'usanza di vangare le vigne i contadini raccomandavano ai vanghiaturi di scegliere queste radici ed ammucchiarle con la duplice funzione di disinfestare la loro vigna e di vendere la gramigna ai carrettieri. Questi mucchi venivano poi battuti dalle donne per polverizzare i ciottoli che rimanevano attaccati alle radici, poi le stesse donne li scinciolavano al vento che ne portava via ogni più piccolo granello di polvere rendendoli bianchi e puliti. Succedeva a volte che gli zingari la notte rubavano tutti i mucchi di gramigna già belli e pronti per diventare il gradito e nutriente pasto delle loro pregne giumente.
'U ciuccio che nun vo vevere he voglia 'e frisca! – a Teano: Ru ciucciu che no' veve 'nce serv e cifulià – in entrambi i casi il significato è chiarissimo: inutile sollecitare chi non vuol fare una cosa. Ma perché cifuliare? Il cifolo è lo zufolo un rustico strumento a fiato fatto di canna. Dunque diventa inutile sollecitare le bestie, seppure con lo zufolo, a bere se non hanno sete. Tuttavia i contadini fino agli anni cinquanta quando portavano le mucche a bere ai cantari o ai ruscelli usavano emettere un caratteristico fischio cadenzato (che noi abbiamo la fortuna di avere appreso) tale fischio modulato ad arte veramente conciliava il succhio e risucchio dell'acqua.
Questo concetto del mondo agricolo che cadenzava le cose dal sorgere al tramonto del sole con ritmi prestabiliti a volte sfugge anche ai più appassionati cultori di cose contadine. La filosofia era quella di economizzare naturalmente le energie. Così al mattino ci si svegliava al nascere dello stellaccio, la stella che precede l'alba: Venere. Si quernavano (governavano) le mucche destinate all'aratura dei campi, il loro arare durante il giorno era cadenzato tutti andavano al passo animali ed uomini che ci fosse il sole cocente o che spirassero i venti freddi del Nord.
La prima cosa che si insegnava ai contadini fin da ragazzi era prendere la fatica dal verso giusto ove lo sforzo era minimo e l'opera migliore, all'uopo riportiamo un detto di questa filosofia sulla fatica presa dal verso giusto: A fatica ra n'attu, a femmena ra tutti gli atti. Se si analizzano, i canti allusivi, gli allucchi (invettive a dispregio fatte in strofe che si inviavano da un'aia ad un'altra o da una soccia all'altra) ci si accorge come i suoni che si emettono non contrastano mai con la respirazione necessaria per l'azione fisica, ne citiamo qualcuno per il gusto del lettore, ma certo per averne maggiore contezza si dovrebbe udire la cadenza dei suoni (che noi conosciamo). Faccia malata, faccia re tautu – rendu ce mitti 'sa faccia gialluta – dalla soccia attigua altra squadra di lavoranti risponde: Canta! Canta! tu, ca te pozzenu cantà a te ri prieuti e a me ri 'nammurati – La risposta alla prima invettiva che in sintesi augura figurativamente la morte è chiarissima e di un'efficacia sbalorditiva: canta, canta pure tu, che possano ( a mo' di bestemmia) per te cantare i preti e per me gli innamorati.
Queste che seguono sono invece tre bellissime strofe di una canzone forse incompleta (ne stiamo cercando il seguito) di una campagnola che mentre sciullechea u ranu (sarchia il grano) comunica col suo uomo che lavora in un campo lontano e che perciò non può sentirla, così lei affida il suo canto ad un dolce Zeffiro primaverile: “Che bella ventarella ch'è utata / certu ru bene mio me l'ha mannata – Issu me la mannata / e i l'aggiu ricevuta / e rendu ru piettu l'aggiu sigillata – Otta ru vientu e llasseru uttà / ca la cammisa a ninnu miu add'asciucà.”
La battitura dei cereali sulle aie era quanto di più cadenzato ci potesse essere, e qui la fatica era veramente dura, perché i baccelli se non erano secchi non lasciavano uscire le sementi e perciò era un lavoro da farsi a core re cauru quando il sole picchiava forte. Ed è proprio da due aie vicine che partono queste due strofe, lo sappiamo dalla pagliuca che vola da un'aia all'altra, vediamo: Pe l'aria, pe l'aria na pagliuca / 'ulia veré chi me l'ha menata – dall'aia accanto: Ve l'ha 'uttata chigliu traritore / chigliu che lassa e figlie 'nammurate. La pagliuca, fra le mille che certo volavano per l'aria, è figurativa e serve quale pretesto per dirsi le cose.
Il nostro pensiero, infine, è che tanta ricchezza d'esperienza, di saggezza, di poesia, che ancora si riscopre nel dialetto, non debba essere sacrificata in nome di una massificazione ormai dilagante che inaridisce ogni locale identità culturale.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno XI 2014 - n. 10 Ottobre)