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Le gualdane saracene in territorio di Teano

 
Bello era il giorno ma non per Teano...
erano cento e cento...
Assaltano le mura;...
mille colpi di spada e mille morti sparsi all'intorno;
l'uno sull'altro giace. Furia, vigore,
rabbia; si tagliano le carni...
tutti sono trafitti i difensori;
I Teanesi fuggono pregando...
Le spade si affondano nei fianchi;
vecchi e fanciulli non trovano scampo...
sopra Teano era scesa la morte
portata dai nemici dei cristiani.
 

Si può dire che, con la battaglia navale di Lepanto del 1571, la lega cristiana rintuzzerà definitivamente i tentativi, iniziati ben sette secoli prima, dei seguaci di Allah di conquistare l'Europa con quella tattica a tenaglia messa in atto in Spagna da una parte e nella penisola Balcanica dall'altra. Tutto l'occidente per secoli è stato interessato da scorrerie di Saraceni che hanno funestato le popolazioni ed i territori di tutta l'Europa, e talvolta addirittura da stabili occupazioni come in Sicilia, Spagna e Paesi balcanici. Il territorio della nostra penisola, estendendosi per quasi tremila chilometri fino alle coste dell'Africa, rappresentò certo il terreno più appetibile per le gualdane saracene. Cosa significasse questo nome Saracenos e da quale dei ventisette popoli della stirpe di Sem provenisse non se ne sa molto di più di quanto ci tramandano i padri della chiesa: la pretesa degli stessi saraceni è che biblicamente fossero dediti a Sara, moglie di Abramo, da cui Saraceni; per i Gentili il loro nome sarebbe derivato dal fatto di essere originari della Siria; l'apologeta latino Amobio li vuole originari del deserto della Palestina; Agostino riteneva si trattassero dei Madieniti, popolo nomade del vecchio testamento che solo nelle fonti del IV secolo p. C. cominceranno a comparire col nome Saracenos.
Il 9° e il 10° secolo rappresentarono il periodo in cui essi imperversarono sistematicamente nell'Italia meridionale e nei nostri territori in particolare: stanziatisi sul Garigliano, nelle loro scorrerie si spingevano fino alle ricche abbazie di M. Cassino, S. Vincenzo al Voltumo, S. Maria della Ferraria presso Vairano Patenora e S. Maria in Cingla presso Alife, traversando in lungo e in largo gli “Oppida in Sidicinis” del vasto territorio che il Gastaldato di Teano comprendeva, lasciando la più totale desolazione nei villaggi e nelle campagne. È da collocarsi in questo periodo il fenomeno, che incomincia da allora a prendere forma, degli incastellamenti quali esigenze difensive verso la repentinità e l'imprevedibilità che caratterizzavano gli assalti saraceni: si attrezzava originariamente, intorno ad una fortificazione già esistente, un rìcetto che raccogliesse i villani e le loro famiglie che abbandonavano, in tutta fretta e con qualche masserizia di fortuna, i propri tuguri e le campagne. Erano ormai ben lontani i tempi in cui, nelle campagne, i vicus non avevano bisogno di fortificazioni né temevano funesti attacchi di popoli stranieri, perché “ROMA” vigilava ed i confini dell'Impero erano in lontane regioni. C'è da dire inoltre che la situazione in quei secoli bui era aggravata dalle continue lotte dei signori longobardi (che allora occupavano buona parte dell'Italia), che si combattevano l'un l'altro, anche tra fratelli, per le successioni ai ducati e alle contee che, nel nostro caso, costituivano la Longobardia minore e di cui la stessa Teano, prima come potente Gastaldato e poi quale Contea, ne rappresentò un importante punto di forza, tanto da non poter dimenticare che da Atenolfo I (887-910), comites della zona, detto il grande, discesero i principi di Benevento e Salerno. Spesso nel corso di queste faide sanguinarie i contendenti non disdegnarono di assoldare gli stessi saraceni come mercenari, i quali non aspettavano altro per vedersi legittimare, insieme all'utile del “soldo", anche il piacere delle scorrerie.
Teano, città fortificata già da prima che giungessero i Romani, fu dai Longobardi ulteriormente rinforzata con la costruzione del castello intorno all'843 su quel che restava dell'Arx (non bisogna dimenticare che fino ad allora la città aveva già subito almeno tre distruzioni da parte dei Goti, dei Vandali e degli Unni). Tutto ciò non salvò Teano dal terribile saccheggio dei Saraceni avvenuto nell'anno 885, che, dopo aver messo a ferro e fuoco tutto il contado, espugnarono la città e ne fecero scempio. Più o meno in quel periodo la stessa sorte toccò anche alle Abbazie ed ai Monasteri della regione, furono trucidati centinaia di monaci e molte suore firono tratte in schiavitù, a Monte Cassino l'abate Bertario fu finito a pugnalate sull'altare maggiore. Di questi fatti narrò Erchemperto, monaco del tempo, nella sua Hìstoriola e ne cantò Ughetto di Monte Cassino in un suo poema in lingua provenzale, del quale ne riporto solo qualche verso: "Ecco le corazze saracene/... Ecco le spade, gli ottimi cimieri/... Cavalcano serrati su focosi destrieri. Bello era il giorno ma non per Teano;/... erano cento e cento.../ Assaltano le mura;../ mille colpi di spada e mille morti sparsi all'intorno; l'uno sull'altro giace. Furia, vigore, rabbia; si tagliano le carni.../ tutti sono trafitti i difensori; i Teanesi fuggono pregando,.../ Le spade si affondano nei fianchi; vecchi e fanciulli non trovano scampo.../ sopra Teano era scesa la morte portata dai nemici dei cristiani". S. Gregorio Magno fa questo ritratto del suo tempo: “Devastate Ie messi, sconvolti i campi, bruciate le città, distrutti i monasteri, la terra priva di ogni agricoltore è un deserto, nessun proprietario vi abita, le bestie occupano le terre che un giorno abitavano moltitudini di uomini".
Gli anni che vanno dal 866 ai primi del 900 furono i più terribili per le nostre zone, le masnade saracene di quel periodo erano guidate da Sawdan, o Sudano come lo chiamavano i contadini, quel condottiero musulmano per le cui scelleratezze secondo un cronista ebreo “...il sole e la luna diventarono oscuri per venticinque anni fino al giorno della sua morte”: stando ad alcuni testi delle cronache cassinesi, il califfo era solito, negli anni che precedettero la distruzione della nostra città, bivaccare nel nostro contado, mentre il suo capitano Mercore razziava uomini e bestieo bruciava vivi i contadini nelle loro capanne.
Queste continue gualdane costringevano gli scampati alle razzie a disertare i centri abitati ed a rifugiarsi tra le montagne e nei boschi non facilmente accessibili; c'è chi fa risalire a quegli anni la formazione di molti villaggi lontano dalle vie di comunicazione ed in luoghi isolati. Ne sono un esempio lampante, nelle nostre zone, i numerosi casali sparsi sulle colline intorno Teano. Nelle campagne indifese i più penalizzati erano i contadini, di cui i musulmani facevano stragi: prima di passarli a fil di spada, sceglievano con cura le giovinette e gli adolescenti che destinavano ad essere venduti come schiavi nei mercati di Damasco per finire negli harem o in campi di lavoro, e non venivano cornmerciati solo in oriente ma anche presso gli arabi di Sicilia o presso il califfato di Spagna, dove, per detta di Liutprando, affluivano fanciulli eunuchi, privati degli organi genitali e venduti ad altissimi prezzi.
Ben giustificati, dunque, appaiono gli apparati di vedette che i villani costruivano nelle vicinanze dei casali ove ponevano a guardia permanente uno di loro che potesse sorvegliare le pianure ed i sentieri di avvicinamento per scorgere i temuti “cimieri al vento” dei Saraceni. Da queste altane si dava l'allarme con espressioni che tuttora sono conosciute in molte parti d'Italia: "...a li Mori ...a li Mori!" oppure "...a Ii Turchi ...a li Turchi! "; vi è ancora oggi un'imprecazione molto abusata, fra gli anziani (pe ru pata Turcu!): è un'evidente bestemmia del Dio degli infedeli. Riporto anche parte di una storiella tuttora declamata dai più anziani ai ragazzi, che mantiene una viva testimonianza di quei tempi, simile a quelle favole di esopica memoria ove figurano gli animali quali attori di allegorie riferibili alle preoccupazioni, desideri e ancestrali paure del mondo umano: un pettirosso che fugge braccato da un
rapace in un giorno di gelo, stremato, senza più forze, prossimo alla morte, finisce, verso sera, sotto le ali di una vecchia merla, che, sotto la neve anche lei, nascosta ai predatori, cercava di passare la nottata tutta tremante; codesta così lo consola: “...sore ninnu, sore, ne cunoscu re sti juocchi finu ra ri tiempi re ru re marruoccu... che menea ra ru mare cu bannere... por'a nui! ...e strozza vagli... " Cosa ci facesse nell'immaginario popolare un “re marruoccu” in una favoletta su per le colline intorno Teano, nei borghi di Poza - Magnano, adesso ci è dato sapere, e possiamo anche immaginarci l'ansia degli scampati alle sanguinarie gualdane saracene che su per le colline, negli impenetrabili boschi, col cuore in gola, cercavano ad ogni inizio di giorno di riprendere una miseranda vita.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 6 Giugno)