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L'immane disastro automobilistico del 20 giugno 1927

 
Località Pioppitelli. La cappella della Madonna del Carmine di proprietà Zarone,
accanto alla quale fu eretto il monumento alle cinque vittime dell'incidente
 

Non esiste un buon giorno per morire, ma se mai quei poveretti avessero dovuto per forza scegliere, quel giorno del 20 Giugno 1907 sarebbe stato un buon giorno. Era tempo di metenza: le messi biondeggiavano al sole a perdita d'occhio, le taglie erano aperte da dozzine di mietitori che condotti da un caporale falciavano, affasciavano regne e alzavano covoni di grano, l'aria era dolce, i garzoni conquistavano alle greggi le nascenti stoppie e le rondini volavano radenti i campi facendo incetta d'insetti. Anche nei pressi di Tavema Zarone, nelle vicinanze della Casilina, quel giomo, i mietitori erano all'opera, quando dalla parte di Napoli sopraggiunge a velocità sostenuta, strombazzando, un'automobile (raro evento per quei tempi), gli occupanti agitavano le braccia fuori dai finestrini salutando felicemente, mentre si accingevano a prendere una lieve discesa detta il Miglio che dopo un miglio, appunto, terminava su di un ponte, torcendo bruscamente a manca per sorpassare poco più avanti un passaggio a livello. Fatalmente gli innocenti saluti dei viaggiatori sollecitarono le alluccarie, le incanate ed ogni sorta di contumelie uscirono dalla bocca dei mietitori, qualcuno mandò qualche Jastemma "...A ru ponte... a ru ponte...".
ll Pansa in “Miti leggende e superstizioni dell'Abbruzzo”, 1924, rileva che nei primi decenni di questo secolo era ancora vivo nell'ltalia meridionale “...l 'uso per diritto consuetudinario permettere ai mietitori dire quante più male parole vogliono a chi passa: lupa, scrofa, cornuto e simile zizzania! E questo gridare che farebbero i cani, si dicono incanate..." .Tali testimonianze le ritroviamo già nel 12° secolo riportate da Pietro di Blois e più tardi, nel 1500, da Pietro Miccio: “...che con dissoluta libertà dicevano parole disoneste a qualunque incontravano, tanto a donne come a uomini, tanto a religiosi quanto a secolari...". Spesso, in passato, i vari regnanti di turno cercarono, invano, di reprimere tali consuetudini, ancora nel 1937 il Borrelli così descrive queste usanze in tempo di metenza, riferite alle campagne di Sessa Aurunca: “...Uno dei tradizionali caratteristici passatempi dei mietitori durante il lavoro è quello, consentito e di rito, di gratificare i passanti di ogni tipo di contumelie, attraverso le alluccarie, a cui i malcapitati si guardavan bene dal ribattere o di risentirsi, mostrando invece di gradire la consuetudine con gesti di consentimento e di compiacimento se da lontano, con frasi augurali e di giubilo se da vicino. Se qualcuno, bersagliato dagli allucchi si cavasse il cappello e ne mostrasse il fondo ai mietitori, ovvero, se donna, volgesse loro il tergo, sarebbe ciò ritenuto segno di dispetto e di sfida ed allora più violenti e feroci diverrebbero le invettive...". L'alluccaria non poteva protrarsi più di alcuni minuti (anche perché si sarebbe sottratto tempo prezioso al lavoro), l'ordine di farla cessare veniva dato dal mietitore più anziano, levando in alto il braccio con cui brandiva il falcetto, se gli anziani erano più di due, la sorte, cioè il tocco, avrebbe deciso a chi spettasse dare l'ordine di smettere. Pericoloso era l'incontro di due squadre di mietitori, che facilmente potevano venire alle mani, cosi i padroni, i caporali o i saggi del momento facevano di tutto per scongiurare il pericolo. Se l'incontro fosse avvenuto dopo il desinare, cioè dopo che molti fiaschi di vino erano stati vuotati, risentimenti, antagonismi, gelosie e vecchi rancori sarebbero inevitabilmente scoppiati e forse tragicamente conclusi. Anche la chiesa cercò in tutti i modi di mitigare il fenomeno, infatti nello scorrere le regole della confraternita del Santo Rosario istituita in Marzano Appio nel 1723 leggiamo: “...Quello che devono fuggire li fratelli ascritti o che vogliono ascriversi: Niuno dei fratelli o novizi possa vestirsi donna o mascherarsi in tempo di carnevale volendo fare qualche onesta trasformazione devono cercare licenza alli superiori della Confraternita. Niuno di detti possa giocare in pubblico nelle botteghe o taverne alla morra, al tocco o alle carte a vino; Specialmente li fratelli devono essere alieni da quel gioco che si costuma far fare l'urmo. Niuno dei detti tanto in tempo di vendemmia quanto in tempo di mietere o di trebbia faccia quelle urlate che si chiamano allucche, con grave scandalo delle donne e dei pupilli; e cosi si devono astenere dalle parole lorde, familiari fra di lore, allorché si uniscono nella campagna o nel paese".
Seguendo la cronaca di quel giomo, diremo che l'automobile (la carrozza senza cavalli la chiamavano i contadini) iniziando la discesa del Miglio acquistò velocità e sul finire del ponte, ove la strada, in salita, cominciava a far gomito a sinistra, impattò violentemente col grosso argine di tufo grigio: fu come un colpo di mortaio, il fuoco avvolse ogni cosa, prima l'automobile con i suoi occupanti poi le siepi intomo e s'innalzò nel cielo una grande fumata nera. ll treno transito sbuffando qualche dozzina di metri più in là, mentre sopraggiungevano i soccorsi dalle masserie vicine; tutti gli occupanti morirono arsi, ciò che impressionò e commosse il garzone accorso furono “...quelle cossetelle nere, fine fine di una signorina...“ che penzolavano mentre deponevano il suo corpo sul ciglio della strada insieme agli altri morti. Si seppe poi dai parenti delle cinque vittime, tutti di sangue blu ad eccezione dello chauffeur, che i poveretti facevano la corsa col treno da Napoli a Roma (cose di nobili per passare il tempo), qualcuno ipotizzò che proprio a quel punto accelerarono per guadagnare il passaggio a livello prima del treno, qualcun altro era certo che le bestemmie dei mietitori avevano avuto parte nell'incidente.
La pietà cristiana e l'amore per i propri cari fece innalzare sul posto un cippo funerario ed una graziosa chiesetta dedicata alla Madonna del Carmine, nella quale fino agli 60/70 si è data messa. Da qualche decennio il cippo funerario è stato abbattuto, la lapide è riposta in mezzo ai rovi e la chiesetta è abbandonata con la porta divelta ed ogni cosa all'interno saccheggiata.
Questa è l'esatta cronaca di quel mattino di inizio estate di cento anni fa; io voglio aggiungere e mi piace credere, in modo un po' sentimentale, che quelle rondini che volavano radenti le stoppie si siano
innalzate alte nel cielo sulla colonna di fumo a raccogliere le anime della Marchesina Maria Pia Cerini e dei suoi spensierati compagni di viaggio.

Carlo Antuono
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 4 Aprile)