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Deserto Italia

 
Tra pandemia e tempo sospeso
 

Dopo mesi di chiusura delle attività produttive e sociali, in forza del DPCM 9 marzo 2020 #iorestoacasa, legato all’emergenza epidemiologica scaturita dalla pandemia della Sars-CoV-2, più volte prorogato nelle sue finalità, ci troviamo ad affrontare la fase 2, quella della riapertura delle attività economiche, con varie limitazioni e obblighi, e alla fine di parte delle restrizioni delle libertà individuali che dovrebbero essere eliminate totalmente, se tutto procede nel modo auspicato, nei primi giorni di giugno.
A questa gravissima crisi sanitaria, la più grave dal dopoguerra, che in alcune aree del Paese ha assunto dimensioni impressionanti, drammatiche, si è aggiunta, in maniera del tutto ovvio e naturale, dato la chiusura di interi settori produttivi, quella dell’economia con il crollo del reddito e dei salari, in un sistema malato che favorisce il precariato, il lavoro sottopagato o in nero. Interessando intere filiere che hanno visto l’azzeramento completo del fatturato e una moltitudine di lavoratori rimasti senza alcun introito.
In questo lunghissimo periodo siamo restati confinati tra le mura domestiche, in quarantena, per limitare il contagio, e all’aperto, quando le necessità lo richiedevano, a praticare il “distanziamento sociale” di almeno un metro dagli altri, evitando qualsiasi assembramento nelle strade, nei supermarket, nelle farmacie, indossando i guanti e portando al viso la mascherina protettiva.
Abbiamo, così, ritrovato, pur costretti a non vedere tanti propri cari perché confinati nelle loro case in altri comuni e regioni, il senso del tempo che scorre, lentamente in questi casi, abbandonando i ritmi frenetici che la vita odierna ci impone, e a inventarci mille modi per evadere mentalmente e comunicare con gli altri.
In tal modo ci siamo, finalmente, riappropriati del nostro tempo, dedicandolo alle letture sempre rimandate, all’ascolto di musica, alla visione di film in famiglia, al gioco e al dialogo con i propri figli.
Abbiamo aperto i nostri terrazzi, i nostri balconi, esponendo la bandiera italiana e quella arcobaleno, e con tutti i vicini e dirimpettai abbiamo cantato all’unisono canzoni liberatorie, inni alla vita e allo stare uniti, alla convivenza sociale, al domani senza assilli, alla rinascita sociale.
Immersi in un silenzio irreale, che tutto copriva e ammantava, che ci faceva giungere, nitidamente, suoni e voci altrimenti annegati nel consueto frastuono quotidiano e godere della vista e del canto di uccelli gioiosamente librantesi nel cielo a caccia d’insetti, intenti alla costruzione dei propri nidi o a rincorrersi senza sosta in un gioco perenne e vitale.
Siamo restati spiazzati, stupefatti e incantati dalla visione delle nostre città, finalmente libere dal traffico che le soffoca e le deturpa, con piazze, monumenti e scorci che ci hanno fatto immergere in un tempo sospeso e irreale, quasi metafisico, avvolgendoci in un’aurea fiabesca, mitologica e dechirichiana.
Abbiamo ripreso le nostre attività, uscendo dal “lockdown”, ma l’emergenza sanitaria è ancora viva, con contagi e morti. Questa drammatica pandemia ha interessato ad oggi, secondo la Johns Hopkins University, circa 5 milioni di individui con 350.000 vittime in tutto il mondo.
Questa crisi terribile e angosciante ha messo a nudo, crudamente, la cecità e l’insensatezza delle scelte politiche che negli anni hanno interessato il nostro Servizio Sanitario Pubblico, con l’assimilazione alle strutture private e alle regole del mercato e del profitto. In meno di dieci anni sono stati tagliati 70.000 posti letto, chiuse 175 unità ospedaliere, ridotte le Asl da 642 (anni ’80) alle attuali 101, con conseguenti tagli al personale medico e paramedico.
Con un’idea di Sanità centrata fondamentalmente alla cura, all’alta specializzazione, sui grandi ospedali e con il costante abbandono dei Dipartimenti di prevenzione, della Medicina generale e dei Servizi territoriali.
La nostra Sanità pubblica, una delle migliori al mondo, è restata letteralmente travolta dal ciclone pandemico e paradossalmente proprio quella del Nord, in primis quella lombarda, considerata l’eccellenza italiana, ha mostrato le proprie crepe, le inadeguatezze e fragilità.
Il modello Lombardia “venduto per anni come esempio di eccellenza, sull’assunto che Sanità e Welfare possano essere business, ha fallito”, come si legge in un documento redatto dai medici, infermieri, sanitari e volontari lombardi.
Privi di adeguate strutture di prevenzione territoriale, i malati delle zone rosse, epicentri dei focolai virali della Lombardia, del Veneto e del Piemonte sono stati riversati negli ospedali soffocandoli, cogliendoli letteralmente di sorpresa, facendoli collassare. Queste strutture aziendali, in assenza del previsto Piano Pandemico aggiornato (l’ultimo risale al 2010) sono risultate assolutamente impreparate e prive degli essenziali D.P.I., i dispositivi di protezione individuali: camici, mascherine protettive, guanti, hanno mandato allo sbaraglio i propri medici e infermieri, facendoli contagiare e contribuire, dolorosamente, alla diffusione del virus.
Con i posti di terapia intensiva e sub-intensiva che, già al di sotto delle effettive esigenze, appena 4.000 sull’intero territorio nazionale, si sono riempiti e hanno costretto a dirottare gli ammalati verso altre regioni e verso la Germania che si era detta disponibile. In assenza di letti, respiratori e sanitari, i medici sono stati costretti a fare delle drammatiche scelte, come emerge da una relazione tecnica della Società Italiana di Anestesia Siaarti che riporta raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, in uno scenario di “medicina delle catastrofi” privilegiando i pazienti con “maggior speranza di vita”.
A queste carenze, poi, si sono aggiunte scelte scellerate come quelle di mandare i pazienti guariti, ma ancora contagiosi, nelle strutture per anziani, RSA, che sono diventate così i focolai più letali, interessando i pazienti più fragili e indifesi. Questa emergenza, non ancora conclusa, ad oggi ha fatto registrare nella nostra Italia oltre 225.000 contagiati con 32.000 vittime.
Le crisi mettono le società davanti a dei bivi e spesso, passato il pericolo, si ritorna allo status quo alla normalità precedente, ma la “normalità” era il problema, con la mercificazione di ogni cosa, con enormi e crescenti disuguaglianze, con la distruzione degli ecosistemi che porta animali portatori di malattie trasmissibili a stabilirsi vicino agli insediamenti umani, con il riscaldamento globale, le guerre.
Questa crisi potrebbe innescare positivi risultati, ma solo se serberemo vive le immagini della catastrofe che ha innescato, se porremmo al centro i bisogni reali della gente e non del mercato e del fatturato, se avvieremo una seria politica di pianificazione ecologica.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno XVII 2020 - n. 3 Maggio )