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Leonard Cohen

 
“So long… Leonard”
 

A meno di un mese dall'assegnazione del Nobel per la letteratura 2016 a Bob Dylan, il “menestrello di Duluth”, per aver "creato una nuova espressione poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana", il 7 novembre ci ha lasciato il poeta del rock Leonard Cohen, l'altro grande, prestigioso rappresentante (unitamente, forse, a Jony Mitchell, a Paul Simon e a qualche altro) di quella cultura “undergroud” che, dagli anni '60 in poi, ha così tanto influenzato e rivoluzionato il modo di essere di intere generazioni.
Quando la musica, intesa fino ad allora quasi esclusivamente come intrattenimento, evasione e consumo, per feste da ballo o come semplice sottofondo, si avvicina alla realtà sociale, ai contesti socio-politici, vive degli umori e delle feroci contraddizioni di una società oppressiva e autoritaria, diventa il fulcro, l'anima, il mezzo espressivo per eccellenza del mondo giovanile studentesco, dell'impegno privato e collettivo, della controcultura e del dissenso, della lotta e delle manifestazioni per i diritti civili e per la liberazione dei neri, per la pace, con testi complessi, allusivi, ricchi e profondi.
Che richiede profonda attenzione, concentrazione e partecipazione, preludio di attente analisi e considerazioni.
Cohen, canadese nato in un agiato sobborgo di Montreal, inizia la sua avventura artistica come poeta e romanziere, pubblicando la sua prima raccolta di liriche “Let us compare mythologies” nel 1956, da giovane universitario, cui succederà nel 1961 “The spice box of earth”, che gli darà notorietà e generali apprezzamenti internazionali
Successivamente, trasferitosi in Grecia, scrive i romanzi “The favorite game” nel 1963, un racconto quasi autobiografico e, nel 1966, “Beautiful loser”, molto apprezzato dalla critica: un'allucinata e provocatoria storia delle minoranze canadesi, con accenti religiosi e sacrilegi, che inaugurerà una nuova mitologia e nella cui scia vedranno la luce una moltitudine di personaggi ritratti e cantati nelle sue composizioni: quella dei belli e perdenti. Inframmezzati dalla pubblicazione delle raccolte di liriche “Flower for Hitler” nel 1964 e “Parasites of Heaven” del 1966. Cui ne seguiranno negli anni altre quattro.
Lasciata la Grecia e giunto a New York, conosce la cantante folk Judy Collins che lo convince a musicare le sue poesie, di tono decadente e influenzate principalmente da Dylan Thomas (come Robert Zimmerman, che per lui cambierà il nome in Bob Dylan) e Garcia Lorca, ne inserisce due nell'Lp “In My life”, e lo fa debuttare, nel 1967, al Festival di Newport.
L'album d'esordio,“Song of Leonard Cohen”, esce nel 1968, con tematiche e liriche che, al contrario di Bob Dylan, assurto a cantore politico, predicatore visionario, e riferimento del “Movement” ribelle e rivoluzionario, pacifista e antinuclearista, che con le sue canzoni, a partire da “Blowing in the wind” e “Master of war” rappresentava “l'espressione autentica del turbamento delle giovani coscienze americane”, costituiscono l'altra faccia della medaglia della controcultura, privilegiando temi privati e intimisti, scandagliando in profondità l'animo umano.
L'album, oggi considerato il suo capolavoro, con stile spoglio, cristallini arpeggi di chitarra classica, arrangiamenti essenziali, voce sussurrante, calda roca e profonda ma: “tagliente come un rasoio”, contiene pezzi pregevoli e indimenticabili: “Suzanne”, “So long Marianne” dedicata al suo grande amore Marianne Jhlen, “Stories of the street”, “Sister of Mercy”, romantici canti grondanti grazia e smisurata tenerezza, intrisi di disperazione e malinconia, delicatezza e forza stilistica.
Seguiranno “Song of a room” (1969), con “Story og Isaac”, The partizan”, sulle infamie della guerra e le devastazioni che arreca all'animo umano, e “Bird of wire”, amaro apologo sulla condizione dell'uomo, tra solitudine e anelito di libertà. “Song of love and hate” (1971), con “Famous blue raincot”, “Joan of Arc”, “Last year's man”, che amplifica il senso di disperata solitudine, di ostinata ricerca spirituale
A questi album, con estrema parsimonia, negli anni si sono aggiunti: “Live song” (1972); “New skin for the old ceremony (1974), con “Chelsea hotel #2”, dedicata a Jonis Joplin;  “Best og L.C. (1975); “Death of a ladies' man” (1977); “Recent song” (1979); “Various position” (1984), con “Hallelujah”; “I'm your man” (1988); “The future” (1992), recensito con toni entusiastici dalla critica americana;  “Field commander Cohen” (1999); “Ten new songs (2001); “The essential”, doppio antologico (2002); “Dear heather” (2004); “Live in London” doppio dal vivo (2009); “Old ideas” (2012); e infine l'ultimo lavoro “Popular problems” del 2014.
Leonard Cohen, il poeta dei turbamenti religiosi, in perenne e inappagata ricerca di spiritualità, il cantore delle malinconie esistenziali, dell'emarginazione, senza tuttavia mai cadere nella rassegnazione, e delle angosciose contrapposizioni di sacro e profano, vittima e carnefice, vincente e perdente, schiavo e padrone, santo e peccatore, è stato l'artista più influente e autorevole, complesso e affascinante, secondo forse solo a Bob Dylan, della musica rock.
Alla sua opera hanno attinto a piene mani, e tratto linfa vitale, un numero enorme di artisti di ogni dove e di grande levatura tra cui basti ricordare: Nick Cave; Morrisey, ex leader degli Smiths; Fabrizio De Andrè, che ha tradotto e interpretato tra le altre, “Suzanne”, “Joan of Arc” e “Seem so long ago, Nancy”; la gothic band inglese di Andrew Eldritch: “Sisters af mercy”, così chiamata in ossequio alla sua omonima canzone; i Nirvana di Kurt Cobain, che nell'album “In utero” lo omaggiano col brano “Pennyroyal tea”: “Datemi un aldilà alla Leonard Cohen cosicchè io possa sospirare in eterno”; Jeff Buckley, che ha re-interpretato “Hallelujah” con tanto trasporto e pathos elevandola a vette astrali.
A lui hanno tributato omaggio registi del calibro di R.W. Fassbinder, che ha inserito molti suoi pezzi nei suoi film; Robert Altman che, ne “I compari”, inserì tre brani del suo primo album; Godard; Nanni Moretti di “Caro diario”; Wim Wenders, col film “Land of plenty”, che richiama nel titolo una sua celebre lirica.
Leonard Cohen ha attraversato un'intera epoca, piena di contraddizioni e stravolgimenti sociali e politici, sempre in punta di piedi, con ritrosia, rifuggendo dalla mondanità e dalle esposizioni mediatiche, coltivando sempre la sua passione per la poesia, scandagliando fino alle ultime pieghe l'animo umano, con candore e leggerezza, meditando sulla umana caducità della vita, con un instancabile anelito di libertà, come un uccello sul filo: “Come un uccello sul filo / come un ubriaco in un coro di mezzanotte / ho provato, a modo mio, di essere libero…”.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno XIII 2016 - n. 11 Novembre)