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Frammenti d'autore - Paolo Cristiano da: Luoghi e Stagioni

 

A proposito delle superstizioni, delle “Janare”, e dei soprannomi, questioni più volte trattate e dibattute sul “Sidicino”, ci piace qui riportare alcuni brani tratti dal romanzo di Paolo Cristiano: “Luoghi e stagioni”. In questo lavoro, rappresentante la sua “quasi autobiografia”, l'autore ripercorre, partendo dal suo amato paese natale, le tappe fondamentali della sua esistenza, tra ricordi veri e sapiente mescolanza di fantasia e immaginazione, rievocando situazioni, atmosfere, stati d'animo, passioni, costumi e credenze. I brani riproposti ci rappresentano uno spaccato dell'epoca, la prima metà del Novecento, descritto con immediatezza e forza espressiva, facendoci immergere in un mondo fatto di credenze, di rituali e tradizioni, che nonostante il tempo trascorso, il progresso e la globalizzazione, resta per molti versi ancora attuale e vivo.

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno VII 2010 - n. 4 Aprile)

 

Superstizioni

“Vivere a Teano richiedeva molte accortezze. Sciagure potevano essere causate dalla rottura di uno specchio.
Dal versare a terra inavvedutamente dell'olio. Dall'avere la strada attraversata da un gatto nero. Dal poggiare il cappello sul letto. Aprire l'ombrello in casa. Passare sotto una scala. Dal canto di una civetta sui rami d'un albero di fronte alla propria finestra. Dall'aver iniziato un lavoro, un'attività o partire, sposare di martedì o venerdì. Dal bere vino versato con la sinistra, tagliare pane capovolto, aver ridotto, con la forbice, a piccoli pezzi un foglio di carta. Dall'aver incrociato lo sguardo di ghiaccio d'uno iettatore.
Prima di andare a letto, i ragazzi dovevano porre dietro l'uscio o fuori d'esso, una o più scope di saggina. Così la strega per entrare avrebbe dovuto perdere molto tempo a contarne i fili, per passare oltre, e la conta avrebbe fatto sopravvenire la luce del giorno che l'avrebbe messa in fuga. Le ragazze, invece, dovevano chiudere ben bene tutte le porte e tappare con stoppa e cera le toppe. Non avrebbe potuto così infilarvisi il proteiforme, diabolico “mazzamauriello”, affamato di carni giovani. Si poteva anche restare vittima di una “fattura” da parte d'invidiosi, per tendere un laccio, stringere nelle spire d'una triste passione. Scarse le difese. Anzitutto occorreva farsi togliere il “malocchio”, ricorrendo ad un buon fattucchiere.
Era fede cieca dei più. Chi non credeva , o si dava arie di non curare queste superstizioni, evitava, comunque, prudentemente ogni provocazione”.

Soprannomi

“Alto, ventilato, il volto assorto, gli occhi infiammati da veglie e letture, attraversava con un certo sussiego il corso e i vicoli, poggiando più sulla punta che sulla pianta dei piedi un po' divaricati, le gambe ad arco. Era il pretore, del quale nessuno mai pronunciava il nome o il cognome, se pur lo conosceva. Per tutti era “per' 'e gallina” (piedi di gallina). L'anagrafe, un'oziosa e superflua formalità imposta dalla legge. Esistevano solo i soprannomi o nomignoli per designare le persone d'ogni ceto, qualità, sesso. Si scartava quasi d'istinto l'assurda incredibilità del nome proprio, considerando il soprannome o nomignolo più assimilabile al nome comune che è invece denotatore di genere ed essenza, indicatore di caratteristiche e qualità, e perfino, talvolta, codice segnaletico del destino.
Il soprannome nasceva spesso con la persona, si ereditava o veniva imposto, detto fatto, nell'immediatezza di un evento che ne coglieva la caratteristica da rimarcare. Così, un vecchio sagrestano colpito da un tic nervoso per cui scuoteva continuamente la testa come per un'affermazione seguita da immediata negazione, era “Si e No”. Il biondino vanesio dalla testa piccola e vuota, era “cap' 'e pucino” (testa di pulcino). Il corpulento obeso marmittone, “Piritone”.
Un magrissimo venditore di mangimi per polli e uccelli: “Quiquì”. Un giovane insegnante che, colto d'amnesia, indicò un toro con l'appellativo di “vacca mascula” fu per sempre “'A vacca mascula”. Un omaccione di cui si diceva che fino ad oltre i tre anni era restato al seno materno, veniva detto: “' o zucazizze”. Altro di cui pare un avo pastore fosse stato colto in peccato di bestialità, conservava l'epiteto di “Ntorzapecura”. La ragazza esuberante che avanzava conscia del suo sex appeal, era “'A tengo sul'i' “. L'autista di piazza, reduce dalla prigionia e incredibilmente magro, dalla particolare conformazione cranica simile ad un teschio, era per tutti: “Cocc' 'e morto”. Il tappezziere un po' effe-minato, “'O femminiello”. E così: “'O Bammeniello”, “Don Zinzò”, “'U vergine”, “'O rre”, “'On fracilone”, “Totonn' 'o zelluso”, “'A figlia d' 'a madonna”, “'A capera”, “'A catara”, “Settecosce”, “Culappiso”, ecc. Per tutti è facile intuire l'allusione e tutti venivano usati apertamente anche nei confronti dei “titolari”, bonariamente, in sostituzione dei desueti nomi propri.
Nessuno se ne adontava”.

Paolo Cristiano - La nana, encausto su cartoncino - 1957
(opera donata al Comune di Teano)