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Indice Martino Amendola
 
 

IL DITO E LA LUNA

 
Teano tra apatia, assuefazione e aberrazioni prospettiche
 

Quando in una comunità, come la nostra, manca un minimo di dialettica, di confronto, e di “scontro” di idee e di posizioni, tra i cittadini e le istituzioni, tra le varie categorie sociali e le forze politiche, inevitabilmente le iniziative languiscono, il livello della qualità della vita scade e il paese assume sempre più le sembianze di un agglomerato urbano la cui unica funzione rimane quella di ricovero per i suoi abitanti.
Questo, produce una  crescente e dilagante apatia  che permea così la quotidianità, dove diventa normale lasciarsi scorrere addosso qualsiasi situazione, qualsiasi evento, foriero di esiti positivi o sciagurati che siano; un’assuefazione cieca e assurda ad un presente vissuto senza stimoli, passioni, impegno, in cui ogni cosa è data per ineluttabile e immodificabile.
Dando vita ad una realtà nebulosa e sonnolenta, dove si vive in uno stato di letargia, di  continuo dormiveglia, cadenzato da improvvisi singulti e scossoni, inconsce resipiscenze, furiose velleità, quando si vuol bruciare ogni cosa per un risarcimento immediato di annosi crediti.
In tal modo, però, la percezione delle cose si offusca, diventa tutto più indistinto e confuso, si perdono di vista le direttrici e le finalità che guidano le scelte di ognuno, si uniformano e si scambiano di ruolo le cause, di ogni azione,  e i loro effetti, innescando meccanismi incoerenti e incongruenti.              
Scatenando azioni e manifestazioni caratterizzate da questa schizofrenia: basti pensare al Comitato che, qualche tempo fa, si costituì per onorare in maniera “degna e duratura” lo storico incontro, con la realizzazione di un’opera  che nelle intenzioni doveva risarcire il paese da decenni e decenni di pubblico disinteresse.
Partendo dalla constatazione che nessun monumento dell’incontro fosse stato realizzato in oltre cento anni, i promotori dell’iniziativa puntarono a colmare quella lacuna, ma, in assenza di risorse finanziarie e senza la benché minima idea progettuale, vollero comunque agire da neofiti autosufficienti e autodidatti.
Infatti, a coloro che allora obiettavano (in pochi, per la verità, me compreso) che l’unico modo per  ripagare la città  fosse quello di regalarle un’opera di grande qualità, che potesse andare oltre il ricordo dell’evento diventando anche attrattiva culturale, affidandone la realizzazione, con un concorso di Idee, ad un’artista di fama mondiale, e con l’apertura  del Comitato  alle forze politiche, economiche e sociali della Città,  si rispose con impropéri e minacce, e che non era più possibile aspettare ancora.
Inutile si rivelò il rammentare  l’esempio di Gibellina, distrutta completamente dal terremoto del 1968, e ricostruita come una sorta di museo permanente, con sculture disseminate per le vie ed edifici diventati loro stessi opere d'arte, grazie ad artisti contemporanei della levatura di  Burri, Consagra, A. Pomodoro, Melotti, Quaroni, Mendini, A. Cascella e altri.
Il motivo che li muoveva divenne non più la mancanza dell’opera, ma, esiziale “eterogenesi dei fini”, il tempo, quello trascorso e  da recuperare, per cui l’importante era realizzare qualcosa subito, a qualunque costo, senza tenere in conto argomentazioni socio-culturali e artistiche  che potessero ritardare oltre il progetto. Portando, poi, a quella realizzazione che diede fiato alle considerazioni, sui “cavalli  e cavalieri bolsi”, piene di scherno e di derisione per la nostra Città,  di Vittorio Zucconi su “La Stampa”.
A quell’episodio, tanti altri  si sono succeduti nel corso del tempo, sempre tesi al recupero di qualcosa che prima si è lasciato andare e poi si è sempre vagheggiato e rincorso.
Emblematico in tal senso l’infinita storia, quasi da teatro dell’assurdo, del P.R.G. che non si è mai riusciti ad approvare in oltre un trentennio, né in Consiglio Comunale né in sede provinciale con il Commissario “ad acta”.
Ora, presentato  come PUC, sebbene manchevole di un benché minimo progetto di sviluppo sostenibile, privo di un’idea forte di recupero e riqualificazione del centro storico e dei quartieri, per nulla ancorato alle vocazioni storiche e naturali del territorio, e con una visione del futuro della nostra città come agglomerato urbano caotico e indistinto, viene accolto dai più  con un senso di sgravio e in modo acritico. Questo, perché dovrebbe “finalmente” colmare un vuoto, riproducendosi così, “sic et simpliciter”, quel processo psicologico di slittamento tra la rivendicazione di uno strumento importante e irrinunciabile per il paese, ad uno purchessia.
Tanta attesa, invece di acuire il senso critico e far lievitare le aspettative, in un  presente vissuto perennemente in termini ultimativi ed emergenziali, deflagra e muta  in una sottomissione fatalista agli eventi.
Senza tornare sulla questione della Casina di Piazza Umberto I, o del progetto per l’area fieristica di S. Antonio, altri due esempi risultano illuminanti.
Il primo riguarda il progetto di risistemazione di Piazza Giovanni XXIII,  dove si è atteso oltre 20 anni per  renderla più funzionale e fruibile, eliminando il rialzo con la fontanina e la delimitazione delle aiuole che la ridimensionavano e la  rendevano pericolosa, con tutti quegli spigoli vivi.
Ebbene, il “tempo”, l’attesa, anche in questo caso ha portato allo svilimento e  alla divaricazione tra le motivazioni di partenza e gli esiti finali. Infatti, assieme al rialzo e alla fontanina, sono state abbattute anche le quattro splendide magnolie che abbellivano la piazza e recavano frescura e ristoro ai ragazzi e ai vecchietti del vicino Ospizio. Per giunta, è stato  demolito anche il muretto di delimitazione che serviva egregiamente  da seduta, per  i ragazzi (del muretto) e per tutti gli altri; così, si è gettato “il bambino con l’acqua sporca”, nell’indifferenza  generale e con rassegnata accettazione.
Infine (per ora), il caso più eclatante di rappresentazione di “aberrazione prospettica”, di distorsione visiva, incapacità di vedere oltre l’immediato campo visivo, di distinguere gli effetti dalle cause.
È di questi giorni l’ultimazione dell’intervento che ha modificato l’accesso al centro storico dalle rampe dell’ospedale, con lo spostamento di qualche metro della colonna romana e la predisposizione di una rotonda per la regolamentazione del traffico veicolare all’incrocio di Viale Italia.  Ne è sortita un’opera per certi versi “surrealista”, con evidenti richiami alla dialettica tra  figure “molli” e “dure e persistenti”, resa in modo memorabile da Salvator Dalì nel famoso quadro “Persistenza della Memoria”, come riflessione sul tempo e sulla memoria (e sul desiderio, sul sogno), che muta e si trasforma, acquista spessore o si dilava, in relazione al ricordo e alle  percezioni soggettive.
Qui, mancano gli orologi (simulacri del tempo), ma la mollezza, la liquidità, è data dalla rotonda, che si adagia, si adatta, quasi sciogliendosi, alla superficie “persistente” della strada. Questo tema dell’adattarsi, del seguire dolcemente la ”durezza”,  è divenuto un motivo consueto, basti considerare le panchine della nostra Città che, oltre a rappresentare un pericolo  per quelli che incautamente vi si seggono, perché posizionate su stretti marciapiedi, vicini a strade di grande traffico che costringono a respirare gas nocivi per la salute, non sono mai realizzate in  perfetto piano, ma  in pendenza, seguendo l’andamento delle strade, che obbligano a posture tutt’altro che di riposo. Sulla “rotonda”, stavolta, grande è stato il fermento, con un vivace dibattito (dopo la realizzazione!) anche sulla stampa locale, ad opera di cittadini e rappresentanti politici. Si è argomentato a favore e contro, si è discettato lungamente sulla grandezza della stessa, se più piccola e magari meno circolare fosse stata più funzionale, se fosse stato meglio costruire il muretto più basso o più alto, rivestito con mattoni o in nudo cemento, se la colonna ha acquistato o perso evidenza, se in questo modo il traffico diventa più scorrevole: si è detto di tutto e il contrario di tutto.
Dando per scontato che la nuova sistemazione fosse dovuta all’esigenza di disciplinare meglio il traffico ed evitare  gli ingorghi che si  formavano all’incrocio. Perdendo di vista il tutto, e confondendo in questo modo, ancora una volta, la causa prima  di tutto ciò con i suoi  effetti.
Dimenticando  che la causa evidente, colossalmente manifesta, è che  il nostro Centro Storico, a differenza di qualsiasi altro centro storico, è aperto alla circolazione delle auto, le sue piazze funzionano da parcheggi, e l’uso e l’abuso dei veicoli a due o a quattro ruote, senza limitazioni di sorta, ne fanno di fatto un circuito cittadino, che porta inesorabilmente a  quelle conseguenze.
Sulla causa, perciò, bisognava intervenire, e non sugli effetti, eliminando il problema alla radice: chiudendo il centro storico alle auto, rendendolo pedonale, pienamente fruibile e vivibile, istituendo una zona a traffico limitato ai soli residenti, regolamentando, comunque, gli orari per la circolazione e per la movimentazione delle merci, deliberando incentivi ed esenzioni per favorire la riapertura delle attività economiche ad esso consone e l’ammodernamento di quelle esistenti.
Dando attuazione al vigente Piano di recupero e finanziando il Piano “colore” per incentivare la manutenzione ordinaria e straordinaria, con il ripristino di edifici in stato di perenne incuria, in gran parte disabitati.
Trovando, finalmente, un’intesa con la Curia vescovile per la realizzazione della villa comunale nell’area del giardino del Seminario, a compensazione della delusione patita dalla comunità nel vedere edificata l’area del glorioso campo sportivo “Medori”, che tutti si aspettavano destinata a verde attrezzato. Programmando una serie di iniziative culturali e socio-economiche per la  valorizzazione delle ricchezze storiche e architettoniche  di un impianto urbano di gran pregio e qualità, e con la presenza trainante del Museo Archeologico, facendo ritornare il Centro Storico ad essere il cuore pulsante e l’immagine della Città.
Così, invece, il problema resta intatto, e si ripresenterà ampliato nel prossimo futuro.
Questa incapacità di inquadrare le problematiche vere, di distinguere le cause dagli effetti, questa costante divaricazione tra le ragioni che muovono le azioni e gli esiti che ne discendono, sono il risultato di quello stato di torpore e sonnolenza, di apatia, che ammanta il nostro paese, dove ci si perde e ci si confonde al primo alito di vento, e dove la nostra condizione sembra sempre più simile a quella di  quel personaggio che  non riusciva a vedere la luna che un altro gli indicava: perchè la sua attenzione e il suo sguardo si perdevano a guardare il dito (il mezzo), senza neppure  intravedere la luna (il fine).

Martino Amendola
(da Il Sidicino - Anno IV 2007 - n. 8 Agosto)

La “rotonda Dalì"
Piazza Giovanni  XXIII  prima dell’intervento
Le monumentali magnolie in fase di abbattimento